░ Il poeta e l'estate che svanisce

Il poeta che adesso che l’estate svanisce non è più  ragazzo


Da ragazzo sedevo per lunghe ore
nell’aranceto di mia nonna dello zen
con gli occhi incavati a fissare il cancello
e c’era – ricordo – oltre che il porco anche
un cane legato a un filo di ferro che correva
lungo il sentiero che dal cancello portava
qui al fico e al casolare, e dietro c’era il pollaio
in attesa che apparisse, spingendo  il fantasma
in avanti, il mio oggetto a  e subito dopo il corpo steso su un letto che qui c’era non si sa
da quanti lustri senza che ci fossero state
estasi del pensiero, senza che mai una donna
godesse del gaudio in cui la propria vita
ebbe il nome e mai il mio sguardo si fermò
sugli uomini  e sulle donne che si nascondevano
in quel mulino insieme a cani, asini e gatti e
anche scimmie e uccelli rapaci aspettando
l’uscita delle loro anime
così da poter vedere
come vivono e per che cosa,
e perché continuano così alacremente
a strisciare e a immettere cavalli e altre
bestie nell’aranceto di mia nonna dello zen
lungo la carrareccia, se vado un po’ fuori
a pisciar nella conduttura dell’acqua che
porta al mulino e dio sa quante volte avrei
solo voluto eiaculare  nel cielo del mondo
e non sull’erba tra gli aranci di mia nonna


e per bucare l’acqua, il corpo morbido e pieno guardandoti dietro
la nuca, le spalle, che si è piantato e non può toccarsi
e tra terra, erba e legno e questa luce che sa di vetro
la piega del podice dentro i jeans che sai portare tra membra
e giunture, e picciune ‘mpracchjatu, l’occhio non è sdraiato quando si è più a sud col meridiano e più in alto rispetto al livello del mare quando anche in superficie  è lo sguardo che schipiciu come l’eclittica sale lungo il tuo petto che ha mântici enormi e limiti caldi
come una notte d’amore du marcǔne che dura sicura e dolce
sino all’alba cu rusticu docile e gruossu nella fessura
del giorno che abbraccia e ha tenera e madida la carne
e il tuo culo così tenero legno e il pelo profondo tutto impracchjato di wenza toga
che sotto le dita è una lunga distanza lucente
un parallelo senza misura mentre ‘a rarica ‘i filice
in questa nera frescura scorrente si tiene mischiata
al concime al sapore di sasso, alla linea del palo su cui
rovesciata fino al ventre tutto si rovescia ancora di più
tra cunnu e bucu du culu ‘a sita delle tue mutande
che sembra vento per come è intrisa di sperma
e di kama salila di tufèra,
ma qui di fronte  non c’è Torre Mellaro e più in là Cavaliere
in quella altezza di 1405 metri sospesi sopra la minchia
colavano sul luogo, sull’erba sperma e miele di femmina
che si immergevano nell’azzurro e nel verde
ciascuno fatto di legno e carne, fica e culo
quasi indiscernibili, tanto che il senso si mangiava
nella controra e faceva eco al suono vento a caso
al prato con la merda di vacca, al legno
bagnato su cui stavi seduta forgiando u ddrugu,
qui legando l’attesa o la forma sospesa sopra la linea
del vuoto da un bordo all’altro dell’asse di legno
verso la mano che altro non tocca più u cannitu ‘mpracchjato probabilmente il tatto sarebbe scivolato in questo gesto così tondo e lubrico tanto che con il sole alla tua sinistra la linea che fisserà la sera
il porco, il cane e l’estate che è da tempo che svanisce
spogliandoti , o semplicemente abbassandoti i jeans,
sulla staccionata come del tuo nome che
essendo di legno entra nella frescura e
rigirandoti in modo che piegata sulla pertica
ruotando nell’ombra che di traverso taglia
l’orizzonte del culo, così cambiando l’ordine
scambiando l’attesa in offerta protesa tanto
che la minchia gonfia questa anima del
cannone di qua e di là a fondo valle
enormi steri ammucchiati di escrementi
solidi e scuri nell’aranceto di Mia Nonna
sparando bordate di wenza toga
sul verde della tua wima questo abbia prima
della sera l’ombra piatta del bagnato e
l’azzurro dei cavalcanti soffochi tra peli e sborra
nella macchia madida che cola o stilla
sui bbalbuselli e si spande fino a che arrotondi
i tratti obliqui dei trenta gradi prima del tramonto
riga che ha succhi, acqua, rami del verde,
šcuma di proffia sul legno su cui sfreghi
l’odore pieno la scrittura della tua tuféra inzuppata
intanto che – lo si vede – vorremmo che ci fosse
la bocca di fuoco di un cannone Parrott
il giunto, il buco, la bordata ca ti allenzu
tra la superficie del verde e l’articolazione di stâmparélli
lo gnomone del proprio indignato e il sentiero di wenza pisciata
e miele ch’ampracchja che in fondo costeggia
il sentiero lungo il quale appeso al filo si muoveva
abbaiandomi il cane, ed ero ancora un ragazzo
e avevamo un bel porco da scannare  e anche galline
e uova  e l’asse dei solstizi tra est ed ovest su questa alta linea
che in montagna allontana e rende più profonda la sera
tanto che lascia vedere il giorno fino al grigio
curvo sul legno dove poggiavi u culu c’è anche qui il peso
unto del tuo grišo(w)u sulla siepe su questa linea
che fa collimare l’azzurro del podice e la pastura verde di minne grânnare e tese contro il cielo
che tagliando sole e i cumuli di limusa di murfusune
e pozze di sperma e allenza laggiù dove il vento
largo ha il sapore di lampo, ‘a petra du truonu, e l’erba balza
tra timpano e olfatto brusio e odore denso di cacazza
pelle che è scorza e legno, chignju grânnaru e culo, labbra
e capocchia, pallânti e sperma, topinaru e rârica i filice,
dove tutto scende per gradi lontano dal tramonto
anche se – dice la verità il poeta - il porco , il cane e l’estate che – adesso che il poeta non è più un ragazzo,- è da tempo che sono svaniti e la montagna che premeva e poggiava il tuo culo
da tutte le parti mischiato di bestie e gambi è spaccato sulla linea che andava salendo cadeva all’orizzonte intanto che le folle camminavano  e tornavano e chi era salito lassù supr’a spaccusa
scendeva e tornava ridendo alla città dove tutto
si richiudeva tra le tue gambe e la camicetta aperta
e l’estate che è da tempo che ogni estate svanisce sempre più



&da : Se fosse l’antologia  di mia nonna dello zen e dell’aranceto occupato dai cavalli degli zingari
Il poeta -indiano