Ignazio Apolloni ░ Lettera a Sebastiano Vassalli


Palermo 14.11.93 da Ignazio Apolloni a Sebastiano Vassalli 

Mio nonno paterno era della provincia di Ascoli Piceno come suo fratello, calato prima di lui a Palermo a vendere scarpe, e sopratutto pantofole (di cui il paese di Montegranaro era produttore) alle signore dell’alta società che allora era costituita essenzialmente dall’aristocrazia. Aprì un negozio in via Maqueda 123 dove poi sono nato io: a dispetto della volontà di mia madre la quale – mi riferiva spesso – ne avrebbe fatto volentieri a meno. Mia nonna, Quintilia Serpetti moglie di Angelo Apolloni, amò moltissimo suo marito al punto da seguirlo dopo tre mesi dal suo ictus che ebbe a stroncarlo mentre andava da qualche parte tenendo per mano mio fratello. Amò ancora di più il vino e per tale motivo ebbi a sentire molti aneddoti su di lei. Gente marchigiana, i due, come un Renzo e una Lucia (Mondella se non sbaglio).
Mio nonno materno era invece un autoctono, uomo rude, orgoglioso, possente nella voce e nel cipiglio, abituato a comandare. Mi dicono che dopo essersi affrancato dalla campagna, al servizio di un benestante di Pallavicino (la frazione che sta ora al centro tra la città e Mondello, allora tanto lontana dall’una e dall’altro da sembrare provincia) si presentò a qualche autorità per reclamare un posto di tutto rispetto. Gli fu offerto quello di direttore dei giardini comunali e per questo divenne un amante dell’opera lirica che andava a sentire al Teatro Massimo dove aveva appunto un palco. In casa mia si cantavano arie, romanze, duetti e cose del genere. In casa sua i figli (mia madre compresa) impararono a suonare uno strumento con il quale addolcirono i tratti del carattere anche dopo che quattro di loro andarono in America a ingrossare la colonia degli italiani all’estero.
Mio padre, macchinista delle ferrovie, mi ha insegnato (o trasmesso?) l’amore per i viaggi fantastici: ecco perché l’inizio del Cigno mi è sembrata la parte più bella del libro.
Ma poiché (e questa è la terza penna) non mi va di sottrarmi al dovere di esprimerti la mia opinione in tutta la vicenda terrena di Fefè Palizzolo (quanto simile, ahimè, a quella di Salvo Lima: che però non fece in tempo a scrivere poesie patriottiche) proverò a dirti cosa ne penso del personaggio e dell’epoca che l’ha generato. Prima però un preambolo: non essendo troppo sicuro di essere un autentico siciliano né un italiano del nord (unico osservatorio dal quale si consente che i zoomorfi del sud possano essere analizzati, e bene) più sicuro anzi di essere una sorta di ebreo, nel senso di “senza terra, senza patria, senza nulla da difendere se non la propria fede” potrò sbagliarmi. Molto meno sbaglierò se ti darò ragione sul popolo festante, vociferante, aduso ad infiammarsi di orgoglio per l’offesa ricevuta (ricordi i vespri siciliani?) perché davvero lì hai fatto centro. La plebe però non fa la storia.
E per andare dunque alla storia (ai ventisette anni di storia che passano tra la morte di Notarbartolo e la fine del racconto del processo che ne seguì – ma quanti notevoli appunti, e precisi, nel libro, su Crispi, Giolitti e Rudinì; quante esilaranti figure e situazioni buffe; quanto sa essere beffardo il Vassalli quando vuole – (e quanto spesso lo vuole il Bastian contrario); quanta mirabile conoscenza dei luoghi tanto da far pensare a un suo lungo peregrinare tra i vicoli di Palermo e dentro le sue catacombe alla ricerca dei Beati Paoli: gli antenati, la setta segreta alla quale si fa risalire l’organizzazione tentacolare e difensive dei più deboli da parte di chi mal sopportava le ingiustizie – “sociali” poi si disse) ti dirò che di gente come Fefè ce n’è ancora molta al giorno d’oggi perché l’ingiustizia di cui sopra si perpetua: da una parte i feudatari, i vassalli (oh Dio che lapsus), i valvassori, i massari (nel senso di lavoratori obbedienti e nulla di più); dall’altro i persuasori occulti (che all’epoca dei fatti poteva essere il giornale L’Ora e comunque lo era la Chiesa mentre ora lo sono i mass media, servizi segreti compresi, e le mille promesse giornaliere che vengono fatte a chi è senza speranza). Solo che uno scrittore, satirico o non, non può stare dalla parte dei giusti. Spetta al mondo della politica fare quella scelta e per quello che ne so furono i socialisti a fare quella giusta (all’epoca dei fatti con i fasci e ancora dopo con il movimento contadino e l’occupazione dei feudi). Mi spiace solo che nella storia personale del fratello delle due suine(???) ci sia entrata una certa Filicetta. Mi spiace pure che si sia data tanta voce a notabili e nobili dell’epoca, fortunatamente scomparsi dalla Nomenklatura e dall’enciclopedia delle persone perbene.
Ed allora chi sono le persone perbene che dal tuo libro emergono; o per meglio dire: chi sono tutti quelli di cui il tuo libro non parla ma sono, per differenza, la stragrande maggioranza? Sono i pupari, i cantastorie, gli artigiani del legno e del vetro, i collezionisti di reperti antropologici, gli scrittori di commedie, gli attori del teatro comico, gli affabulatori come Petrufudduni, i poeti Nobel, gli inventori del Verismo, gli amanti delle Sonnambule, gli ingenui sperimentatori di linguaggio (fagocitati ancor prima di nascere da un gruppo di banditi detti ’63, dal numero di ambiziosi che ben presto li sopraffecero), i sindacalisti martiri, i giudici martiri, gli imprenditori recalcitranti alle intimidazioni, martiri pure loro.
E infine chi sono tutti quelli che esprimono valori, sentimenti forti, intelligenze pure, astrazioni metafisiche e via dicendo? Spero ce lo dirà il tuo prossimo libro.


Ignazio