V.S.Gaudio
L’epica di Alexandra Ogilvie
La Stimmung con Hermann sull’amore a bardosso
Nella barca i jeans le donano a meraviglia, non è sontuosa
e puzza di scimmia nel chiarore da oriente, grigio e rosa
né ci sono masserie sparse lungo la riva, o qualcuna sul pendio
tra i monti selvaggi, su per la parete o tra i boschi
così travestita potrà raggiungere il porto di Gadir
o se sarà necessario dovrà tingersi i capelli
con questo profilo più ardito e desto, più duro anche
gli si accostò di fronte, vicinissima, con quell’aria trasandata
che già tra il mento e le sopracciglia tende la malizia
tanto che allora finalmente egli la strinse
non è misurata, né virginale, né ha quella musarderie
di chi va a zonzo per la città foss’anche di media grandezza
quando c’è un po’ di fresco e di venticello
o se l’aria della sera trascolora al giallo e al rosso
e parole e risa svolazzano dappertutto
ci vorrà coraggio anche se è quasi buio per andare
a Babilonia per via fluviale e prima ancora
cavalcarle accanto, lei su un carro, e noi in groppa
ad asini in questo paesaggio poco ubertoso e splendido
anche quando comincia a ondularsi in mezzo a boschetti
radi attraverso praterie stranamente intricate
verso mezzogiorno e mi sovvengono i canti meridiani
tessalici di Diagora:
“Pan si è assopito nell’afosa radura
ora tace il ruscello, muta lampeggia la pietra
ed anche il mio cuore deve stare quieto:
chi sa, che cosa mi succede.
Una favola, quasi la scordavo, dice:
folle diventa colui che a meriggio vede sul pontile
Alexandra Ogilvie, lei che con il piede avviluppa in aria
spicciando dalla caviglia un breve nodo di malia”
e in un attimo io ci rimasi secco tra il pantano
e la città da cui in direzione nord attraverso il deserto
da tutte le porte e tende sbucarono di corsa soldati
e si schierarono su un fronte breve, sei file in tutto,
per scagliare dardi fino al tramonto
sulla sponda destra del fiume non c’è un’antichissima
e grande città, né un bel ponte di pietra sull’Eufrate,
assai solido e comodo, le macchine d’assedio facevano
un’impressione terribile come giganteschi insetti
dalle membra anchilosate, alti quanto una casa
dietro il fuoco come se si voglia procedere all’infinito
o navigare il grande oceano, giù per l’Indo
sparando un sacco di balle sull’India quand’anche
sia stata tesa sopra l’angolo in fondo una coperta
perché ci sia almeno un posto all’ombra
e si dimostri nei confronti della sporcizia tutta l’indifferenza
degli esseri angariati da molteplici disagi
sulla barca un grigio rossastro, desolato, squallida tinta,
a oriente il fiume scorre via silenzioso e largo
fino al giallo e rosso all’altro capo del mondo
nella sera in cui la luna adunca impigliata
è appesa negligentemente nella rete
Alex accanto a me col vento che palpita intorno al nostro volto
schiude la bocca e respira forte, puzza di scimmia,
non ha lunghe stringhe rosse ai sandali
è alta 166 centimetri e pesa non più di 62 chili e
avendo un seno da 91 centimetri ha il pondus molto
alto, 13, e l’indice costituzionale 54.81 che è
quello di una normolinea mesomorfa
“Oh, lo so” disse Alex stesa nella barca, contro la mia spalla
“a che sta pensando: all’indiana che cavalca a bisdosso, non è così?”[1]
Mi venne da ridere veramente: “No” risposi “non fa per me”
“Ma allora qual è il suo tipo? Si può sapere?”
Io la fissai con decisione disperata, in mezzo agli occhi
nella desolazione del paesaggio che suscita pensieri
da immondezzaio nel crepuscolo in cui un bagliore
di fuoco sul fiume sembrava galleggiare
giapponesi su una palafitta robusti zoticoni delle montagne,
grandi e grossi, con il petto squadrato e fronti spaziose,
una milizia scelta intorno e dietro a noi
altre imbarcazioni sul disco fluviale
il fisico è essenziale nella scelta dei cavalli
e dei buoi magari anche delle razze canine e delle scimmie
tanto che è risaputo che Chimpo è giudicato in base
a ciò che lo distingue dagli uomini
ed è per questo che Alex senza alcuna discrezione
mostra le tette talché dovetti distogliere lo sguardo con rabbia
anche dal podice per come si portava sulla palafitta
cui approdammo come se fosse Bab-ilu, la grande città
e il brulicame di gente, e cominciò a sparare passando
un po’ sopra la linea dell’orizzonte sempre che
il sole fosse alla sua destra dato che i raggi incidono
con una notevole inclinazione a causa della curvatura terrestre
“è semplicissimo”, la palafitta è divisa in due dal fiume
da una parte, io e la scimmia uccisa
dall’altra, Alex che spara impaziente verso la finestra
il mio cuore che pulsava contro il suo podice, dieci uomini
in tutto, tutti stesi
un capolavoro dell’arte militare, una delle operazioni strategiche
di tutti i tempi, l’attraversamento del fiume sotto
gli occhi del mondo e poi una volta approdati alla palafitta
su cui Chimpo era stato ucciso non ci fu un assedio metodico
né la grosse torre di legno, niente,
Alex balzò sulla palafitta e li stese uno dietro l’altro
come al tiro a segno
“Oh, un bel pasticcio davvero” disse apertamente
“sicuro, avevano ucciso Chimpo! E’ vero che puzzo di scimmia?”
“Quando sei sottovento, o in mezzo al fiume, e non
c’è l’essenza di cinnamomo nell’aria,
come presso gli animali della foresta ogni donna
è possesso comune di tutti gli uomini
tra queste tribù che vivono in piccole insenature
che a tergo e sui fianchi sono chiuse da
insormontabili pareti di roccia a strapiombo,
sul davanti, la barriera del fiume aperto,
non è un mistero che puzzi di scimmia”
l’acqua fluisce gialla e verdastra non solo nel primo mattino
il sole pullula rugginoso dalla palude
guardo da quella parte, assente, infreddolito, vuoto
e privo di senso
Alex soffia acqua dal naso arricciato a starnutisce:
“Ti va di unire la mia puzza di scimmia con la tua
di asino?” steso su una lastra di roccia esposto
al sole più che con la sua grandezza di stratega
mi fulminò il suo podice di mula che era un po’
del tipo dell’indiana che cavalca a bardosso
“Turtle Island è il nome che gli Indiani davano al
continente; qui ce n’erano più di un milione per riconquistare
le loro terre e adesso, da 15 anni, c’è solo questo
simbolo di megalomania e gli indiani si sono dispersi”
adesso questi giapponesi che
non fanno che ritardare la mescolanza
dei nostri profumi e di cui bisogna disfarsi
in questa palude inabitata e inabitabile un po’ più in là
di questo monumento-totem all’impero pellerossa
“Sta’ a sentire, non ci sono alberi di mirra meglio
cresciuti che altrove, dotati di più copiose essudazioni
della loro resina preziosa, né c’è una liana spinosa
e tenace con cui lanciarsi più a valle tra cespugli
odorosi e il soave profumo che si sparge nella notte
sopra la sabbia, a 500 stadi dalla costa, questa gola
rocciosa vuota che si riempie di acqua e può ribollire
di gorghi schiumosi”
quest’aria che trattiene in sé il passato dei pellerossa
che hanno respiri naturali,
suoni della pioggia e del vento
richiami di uccelli e animali nei boschi
sillabati in nomi che si disperdono
Okonee, Koosa, Ottawa, Monongahela, Sauk, Oronoco,
Wabash, Saginaw, Chippewa, nell’acqua e nella terra in cui
non c’è una città grande o piccola che sia che come
Babilonia ci venga incontro e la sera ti accarezza
la vita indietro o in avanti in questa passeggiata
che dura un giorno lentamente come se fosse
il volo in cerchio delle anatre
“Cavalcami a pelo
prima che si scateni il macello
e soffi il disprezzo, prima che
uno dietro l’altro dovrò far fuori questi lupi
che vogliono rapinarsi un trono”
a cui non posso che rispondere eccitato “Alla fine
non c’è una ragione valida che mi impedisca di farlo
anche se si scatenerà un macello che per intere generazioni
sarà il deserto della rabbia forsennata e demoniaca”
il poeta non si occupa dell’orto né di Sarah e della
sua piccola scimmia, né canta un finale alla riva
o alla terra e alla vita un finale e un addio,
spesso si avventura sui mari studiando le carte
e ritornando debitamente al porto
ma non per abbracciare amici che non ha,
né chiede alla pioggia che scende dolce
e che questa gli risponde “Sono il Poema della Terra
ed eterna mi sollevo impalpabile su verso il cielo”,
tutt’al più, e sempre, di giorno e di notte, restituisce
vita alla sua stessa origine, la abbellisce,
continuerà a cavalcare la mula a bardosso
sia che di essa importi o no, debitamente ritorna
con amore
[1] Con ogni probabilità, Alex si riferisce all’indiana che va in moto e che fa parte della banda che viene sgominata da Jeremiah e Kurdy: cfr., della serie “Jeremiah”: Trois Motos…ou Quatre, éditions Dupuis, février 1994.
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◊ Hermann(che di cognome fa Huppen) è nato in Belgio nel luglio del 1938.
Alexandra Ogilvie è la protagonista del suo album Bd Alex, della serie Jeremiah, che è stato pubblicato nel settembre 1990 nella collezione Repérages dalle éditions Dupuis con una affichette e un catalogo.
In Italia, Alex è apparso in “Lanciostory” n.35, 36, 37 del 1991.
La serie Jeremiah ha una particolare ambientazione transtemporale che crea una sorta di racconto fantascientifico in cui, di volta in volta, vengono narrate avventure dall’aria western, poliziesca, storica, leggendaria. I personaggi principali sono Jeremiah e Kurdy Malloy, insieme alla sua inseparabile mula.
In Alex, Jeremiah e Kurdy “subiscono” di nuovo la storia: per una ricostituzione famigliare(Alex che vive col padre e le scimmie; il fratello Edward con la madre) si trovano contrapposti a un commando giapponese, che non vuole lasciare testimoni dietro di sé. ◊
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giorgio penna