"Vorrei che La vita cronica aprisse uno spiraglio nel magma buio e incandescente dell'individuo,
e sul suo laborioso e vitale zigzag per liberarsi da un abbraccio gelato: quello implacabile e
indifferente della Gran Madre degli Aborti e dei Naufragi, Nostra Signora la Storia"
[Eugenio Barba]
di Maurizio Nocera
Un novembre meraviglioso è stato quello 2011. Per me, poi, lo è stato in modo particolare perché, me lo aspettavo, in quanto già sapevo che nel programma leccese degli eventi messi in opera dai Cantieri Teatrali Koreja, ci sarebbe stato Eugenio Barba, uno dei grandi inventori del teatro contemporaneo. Ma di lui Barba, della sua capacità di incantare gli attori e gli spettatori, ci sarà un altro luogo per parlarne. Qui mi interressa riflettere sul suo ultimo spettacolo, La vita cronica [una produzione Nordisk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de La Abadia (Madrid), The Grotowski Institute (Wroclaw)], presentato appunto al teatro stabile di Lecce nei giorni 9-18 di novembre e che io ho avuto la fortuna di vedere per ben tre volte, il 9, il 12 e il 17. Avrei desiderato vederlo ancora un’altra volta, ma l’Odin Teatret il 18 finiva le presentazioni. E dunque.
Da una cartolina pubblicitaria, stampata dallo
stesso Odin Teatret, leggo:
«La vita cronica// Dedicato a Anna Politkovskaya e Natalia
Estemirova/ scrittrici russe in difesa dei diritti umani, assassinate da sicari
nel 2006 e 2009 per la loro opposizione al conflitto ceceno.// Personaggi: una
Madonna nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una
casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista rock delle isole Faroe, un
ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa, una violinista di
strada italiana, due mercenari.// La vita
cronica si svolge contemporaneamente in Danimarca e in altri paesi d’Europa
nel 2031, dopo la terza guerra civile. Individui e gruppi con retroterra
diversi si ritrovano insieme e si scontrano pressati da guerre, disoccupazione,
emigrazione. Un ragazzo approda dall’America Latina in cerca di suo padre
scomparso. “Smettila di cercare tuo padre”, gli sussurra la gente mentre lo
accompagnano di porta in porta. Non è l’innocenza né la conoscenza a salvare il
ragazzo. Sarà l’ignoranza a fargli scoprire la sua porta. Tra lo sconcerto di
noi tutti che non crediamo all’incredibile: che una vittima valga, da sola, più
di ogni valore. Più di Dio».
Questa, fondamentalmente, la trama dello
spettacolo, basato sui testi di Ursula Andkjær Olsen e dello stesso Odin
Teatret. Gli attori: Kai Bredholt,
Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia
Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley. Drammaturgia di Thomas Bredsdorff. Consulente letterario: Nando Taviani. Disegnatore luci e consulente: Odin Teatret e Jesper Kongshaug. Spazio scenico e suoi consulenti: Odin
Teatret, Jan de Neergaard e Antonella Diana. Musica: melodie tradizionali e moderne. Costumi: Odin Teatret e Jan de Neergaard. Disegni della brochure: Giulia Capodieci. Copertina della brochure: Peter Bysted. Direttore tecnico: Fausto Pro. Assistenti
alla regia: Raúl Laiza, Pierangelo Pompa, Ana Woolf. Regia e drammaturgia:
Eugenio Barba.
Ho riportato il lungo elenco degli artisti in opera (spesso, i critici d’arte si dimenticano di farlo), perché si tratta di attori, attrici e personale tutto che mantiene in vita l’intera struttura della più geniale invenzione di Eugenio Barba. Si tratta di un teatro che “cammina” (ovviamente oggi su gomma; l’Odin si muove con un tir lungo quanto un fiume), come accadeva un tempo per le compagnie del teatro dell’arte. Di solito, lo spettacolo viene pensato e messo in opera dal regista negli spazi pubblici messigli a disposizione dalle istituzioni danesi in quel di Holstebro, dove c’è il suo laboratorio vivente, quindi viene prima presentato nel paese in cui lo spettacolo viene creato, in questo caso la Danimarca, poi si avvia a “camminare” laddove la richiesta lo porta.
Eugenio Barba e i suoi attori portano in giro
per il mondo il loro teatro trainandosi dietro l’intera struttura che, per chi
non l’avesse mai vista, in questo caso specifico della Vita cronica, consiste in una grande pedana rettangolare – la
“zattera” l’ha definita il regista – al centro dello spazio teatro affiancata
da due gradinate, che solitamente possono contenere più o meno 110 (spesso
qualcuno in più) spettatori; i due lati minori del rettangolo teatrale sono
occupati dallo spazio scenico con una particolarità che vede gli artisti
“agire” ora su di un lato ora sull’altro oppure, e questo succede spesso, in
contemporanea, con gli artisti che si muovono all’unisono su entrambi gli spazi
scenici. È facile intuire la situazione: lo spettatore, per poter vedere
l’azione o le azioni rappresentata/e, è costretto a guardare contemporaneamente
sui due lati scenici, cosa impossibile, oppure guardare prima da una lato, poi
dall’altra. È evidente che questa non è cosa facile da mettere in pratica,
perché lo spettatore non possiede il dono della vista a 360 gradi, per cui è
costretto a scegliersi la scena.
Questa costrizione del “dove guardare” è
proprio quello che vuole che si verifichi il regista che, così facendo, lascia
libero lo spettatore di scegliersi la scena. È ovvio che mai si riesce a vedere
tutto, perché qualche scena sfugge, in quanto, quando lo spettatore sta
guardando da un lato, in quello stesso momento, sul lato opposto si sta rappresentando
un’altra azione. Per poter avere una visone più o meno (è impossibile la
totalità) completa, occorre vedere lo spettacolo più di una volta. Ed è quanto,
a differenza di altri spettacoli dell’Odin Teatret da me visti, mi è accaduto
questa volta con la visione della Vita
cronica, eccezionalmente goduta per tre volte.
Lo spettacolo è accompagnato da una brochure (edita da Odin Teatret. Nordisk
Teaterlaboraturium, settembre 2011) con gli interventi di: Eugenio Barba (il
regista che scrive due pezzi: Incomprensibilità
e speranza; Il primo giorno);
Thomas Bredsdorff (il drammaturgo che scrive: Il teatro cronico); Nando Taviani (traduttore in italiano dei testi
scritti per lo spettacolo e professore di Storia del teatro che per 12 anni ha
insegnato all’università del Salento e che oggi continua il suo magistero
all’università de L’Aquila), che scrive: Le
Indie nere dell’Odin Teatret; Sofia Monsalve (l’attrice che interpreta il
ragazzo colombiano che cerca suo padre), che scrive: Quel che mio padre mi ha lasciato; Kai Bredholt (l’attore che
interpreta la vedova di un combattente basco), che scrive: Donna vera; Julia Varley (l’attrice che interpreta la rifugiata
cecena), che scrive: La nascita di
Nikita: protesta e spreco; Roberta Carreri (l’attrice che interpreta la
casalinga rumena), che scrive: La nostra
vita cronica; Iben Ngel Rsmussen (l’attrice che interpreta la Madonna
nera), che scrive: Il senso della follia,
con un testo poetico e gli altri in prosa.
Si tratta di testi bellissimi di autori/artisti
che nel panorama mondiale hanno fatto un’esperienza più che unica e che qui, in
questa sede, sarebbe veramente un peccato non darne conto.
La Rasmussen introduce il suo testo con la
poesia La sala blu (febbraio 2008):
«[…] Vennero gli attori,
stanchi
da anni di viaggi e imprese,
e il regista
a sorpresa vestito da monaco giapponese,
o forse cinese,
color verde appassito
seguito dagli assistenti e dal consigliere letterario» (p. 71);
seguono due testi in prosa: La sala della solitudine (maggio 2009) e La sala nera (febbraio 2010): «[…] Un giorno Eugenio mi mostra la figurina di un Bambino Gesù che è appesa nel suo ufficio: indossa una tunica bruna e, come aureola, tre manine spuntano da dietro al sua testa. “Provale per la tua Madonna” suggerisce. Nel Vangelo di Oxyrhincus, in Kaosmos e in Mythos abbiamo adoperato mani di legno, opera di uno scultore balinese. […] Anche per Eugenio, che ha seguito lo sviluppo delle prove insieme al piccolo gruppo di assistenti, ci deve essere spazio – un’area di libertà e ispirazione. Ad ogni modo gli vengono molte idee. Un giorno mi dice: “Forse la tua Madonna dovrebbe essere nera. E parlare latino”. Poi aggiunge: “Forse Lolito potrebbe trasformarsi in soldato. Gli procuro subito un’uniforme”» (p. 76); segue un altro testo in prosa, La sala bianca: «Dopo le due ore del væksthus, la mattina, continuiamo a elaborare la struttura dello spettacolo nella sala bianca. Dal momento in cui vi entriamo, è Eugenio che ha tutti i fili in mano. È la fase in cui noi attori dobbiamo mobilitare una pazienza quasi sovrumana. Veniamo spostati senza cessare a sinistra e a destra in un fiotto continuo di informazioni contraddittorie, con difficoltà a comprendere in quale direzione andare. Niente di strano, dato che anche il regista non è in grado di raccapezzarsi riguardo alla direzione del processo e che per di più considera una virtù il fatto di buttar via la bussola» (p. 77); segua l’ultimo testo, La sala rossa (Ottobre/novembre 2010 – Febbraio/marzo 2011): «Un’era è finita. Torgeir [uno dei primi attori di Barba] è morto di tumore in un’alba del giugno 2010. Ci siamo stretti l’uno all’altro, come globuli rossi in un corpo ferito./ La vita cronica sarà il primo spettacolo di gruppo dell’Odin Teatret senza Torgeir. […] Glaaang… - e un compagno di vita scomparso. […] La mia esangue figura femminile ha mostrato di contenere sia una Madonna nera che una terrificante divinità induista, le cui caratteristiche riconosco solo vagamente, e nel profondo di me. La vita cronica ha vagato attraverso tutte le sale di lavoro del nostro teatro. I muri sono stati i testimoni silenziosi delle nostre battaglie […] delle nostre crisi e dei disperati attacchi di rabbia di Eugenio quando i suoi attori, una volta dopo l’altro, non comprendevano le più semplici indicazioni. Ci hanno visto barcollare in costumi inzuppati di sudore, con lividi sul corpo e nell’anima, in un buio a volte assurdo» (pp. 71-78).
da anni di viaggi e imprese,
e il regista
a sorpresa vestito da monaco giapponese,
o forse cinese,
color verde appassito
seguito dagli assistenti e dal consigliere letterario» (p. 71);
seguono due testi in prosa: La sala della solitudine (maggio 2009) e La sala nera (febbraio 2010): «[…] Un giorno Eugenio mi mostra la figurina di un Bambino Gesù che è appesa nel suo ufficio: indossa una tunica bruna e, come aureola, tre manine spuntano da dietro al sua testa. “Provale per la tua Madonna” suggerisce. Nel Vangelo di Oxyrhincus, in Kaosmos e in Mythos abbiamo adoperato mani di legno, opera di uno scultore balinese. […] Anche per Eugenio, che ha seguito lo sviluppo delle prove insieme al piccolo gruppo di assistenti, ci deve essere spazio – un’area di libertà e ispirazione. Ad ogni modo gli vengono molte idee. Un giorno mi dice: “Forse la tua Madonna dovrebbe essere nera. E parlare latino”. Poi aggiunge: “Forse Lolito potrebbe trasformarsi in soldato. Gli procuro subito un’uniforme”» (p. 76); segue un altro testo in prosa, La sala bianca: «Dopo le due ore del væksthus, la mattina, continuiamo a elaborare la struttura dello spettacolo nella sala bianca. Dal momento in cui vi entriamo, è Eugenio che ha tutti i fili in mano. È la fase in cui noi attori dobbiamo mobilitare una pazienza quasi sovrumana. Veniamo spostati senza cessare a sinistra e a destra in un fiotto continuo di informazioni contraddittorie, con difficoltà a comprendere in quale direzione andare. Niente di strano, dato che anche il regista non è in grado di raccapezzarsi riguardo alla direzione del processo e che per di più considera una virtù il fatto di buttar via la bussola» (p. 77); segua l’ultimo testo, La sala rossa (Ottobre/novembre 2010 – Febbraio/marzo 2011): «Un’era è finita. Torgeir [uno dei primi attori di Barba] è morto di tumore in un’alba del giugno 2010. Ci siamo stretti l’uno all’altro, come globuli rossi in un corpo ferito./ La vita cronica sarà il primo spettacolo di gruppo dell’Odin Teatret senza Torgeir. […] Glaaang… - e un compagno di vita scomparso. […] La mia esangue figura femminile ha mostrato di contenere sia una Madonna nera che una terrificante divinità induista, le cui caratteristiche riconosco solo vagamente, e nel profondo di me. La vita cronica ha vagato attraverso tutte le sale di lavoro del nostro teatro. I muri sono stati i testimoni silenziosi delle nostre battaglie […] delle nostre crisi e dei disperati attacchi di rabbia di Eugenio quando i suoi attori, una volta dopo l’altro, non comprendevano le più semplici indicazioni. Ci hanno visto barcollare in costumi inzuppati di sudore, con lividi sul corpo e nell’anima, in un buio a volte assurdo» (pp. 71-78).
[Iben Nagen Rasmussen]
Roberta Carreri ha scritto il testo La nostra vita cronica, periodizzatolo,
per cui, attraverso la sua lettura, è possibile capire il percorso della spettacolo dalla sua prima ideazione
fino alla rappresentazione sulla scena. Scrive:
«L’inizio di un nuovo
spettacolo è stato più volte paragonato all’inizio di una nuova vita. Il
concepimento dei nostri spettacoli è sempre avvenuto alla sola presenza degli
attori e del regista, in un’atmosfera piena di trepidazione e intimità. Per Il sogno di Andersen Eugenio ha
inseminato la nostra fantasia, nei luoghi più diversi: […] Le sue
“improvvisazioni verbali” hanno il dono di essere tanto precise e tanto vaste
da riuscire a stimolare l’immaginazione e risvegliare l’interesse in ogni
attore. Siamo persone tanto diverse, con alle spalle una lunga esperienza e
sulle spalle una certa stanchezza. Continuiamo perché non possiamo farne a
meno. Vocazione? A volte un colpo di coda violento, come quello di un pesce
preso all’amo che cerca di liberarsi, smuove le acque. Sbotti di ira. Contro il
proprio destino?/ 9 aprile 2011: Il sogno
di Andersen finisce di sorpresa a Bogotà con una dichiarazione di Eugenio,
che irrompe nello spettacolo all’ultimo minuto dell’ultima scena e si rivolge
direttamente agli spettatori: “Avete assistito all’ultima rappresentazione in
assoluto di questo spettacolo”. Per la prima volta nella storia dell’Odin
Teatret, uno spettacolo viene chiuso a scena aperta. Un colpo d’accetta. Un
grande albero viene abbattuto, per dare luce al giovane albero che due
settimane prima aveva mostrato di aver attecchito./ 2008// Eugenio riserva il mese di febbraio per iniziare il lavoro
sul nuovo spettacolo il cui titolo provvisorio è XL (Extra Large). […] È
la prima volta che Eugenio ci descrive il tema del nuovo spettacolo alla
presenza di altre persone. Ogni momento della creazione di questo spettacolo
avverrà sotto gli occhi di testimoni. Per aiutare Eugenio? Per aiutare noi
attori? […] Mi aspetto un nuovo inizio e invece quando Eugenio apre bocca ci
obbliga a confrontarci ancora una volta con un funerale. Questa volta non è
quello di una canzone, non è quello di un’idea: è il suo./ Eugenio dice: “Un
giorno arrivate al teatro e vi annunciano che sono morto. In una lettera vi
prego di organizzare il mio funerale con ciò che sapete che amo. Avete la
possibilità di dialogare con me, di dirmi quello che non mi avete mai detto.
Per tanti anni avete lottato per non farvi schiacciare dall’Angelo. Raccontate
una storia piena di orrore e humor su di me a cui dovrete rivolgervi dicendo
‘lui’, mai ‘tu’. Ognuno di voi deve preparare la sua cerimonia. Decidete voi
come. In pochi minuti. Dovrete dirigere i colleghi. Sofia [Monsalve] ha,
invece, un’altra storia. È venuta per cercare suo padre. Questa vicenda è
l’asse attorno al quale si aggroviglieranno le nostre storie. La nostra stella
polare è il tema dell’integrazione”. Come sempre il tema di uno spettacolo di
Eugenio è attuale, bruciante. […] 12
febbraio 2008. Nel centro dello spazio ci accoglie un grande oggetto
rettangolare coperto da un telo. Eugenio dice: “Qui sotto ci sono due idee: una
mia e una di Luca Ruzza”. Il telo viene tolto e appare una bara trasparente,
come quella di Biancaneve. È piena d’acqua, dentro nuota un’anguilla. Eugenio
chiede a Sofia di entrare nella bara. Il suo corpo si cala dolcemente. I
capelli fluttuano mentre l’anguilla scivola lungo le sue gambe. Sembra nel suo
elemento. Quando Eugenio chiede a Sofia di uscire dall’acqua, lei ne riemerge
tremante dal freddo e dallo schifo./ Lo spazio che Eugenio vuole utilizzare è
di 5m x 3m. Piccolo piccolo. Ogni nostra minima azione è assordante. […] Tutti
i giorni ripetiamo le proposte di ogni attore nell’ordine di presentazione, più
quella di Nando. Ogni giorno Eugenio suggerisce qualcosa di nuovo,
modificandole. Durante la sua scena, Tage [Larsen] ci chiede di dire le frasi
che abbiamo sentito ripetere da Eugenio fino alla nausea nel corso degli anni.
A me viene in mente: “Questo spettacolo deve stare in una valigia”./ Dopo tre
settimane di clausura, la filata dello spettacolo dura 80 minuti. Nel
“magazzino” sono accatastati frammenti di vecchi spettacoli e nuove idee. Li
riponiamo nella “bara di cristallo”. Interrompiamo le prove per andare in
tournée con il nostro repertorio. Quando riprenderemo il lavoro su XL, ancora non si sa. Probabilmente fra
un anno. Nel frattempo ognuno di noi dovrà creare il proprio personaggio e
almeno mezz’ora di “tessuto musicale”. Io non ho idee, ho solo bisogno di fuggire
da me stessa. […] 4 maggio 2009./
Riprendiamo il lavoro su XL. Ci viene
comunicato che il titolo del nuovo spettacolo sarà La vita cronica. Un altro degli ossimori di Eugenio, penso quando
lo sento per la prima volta. Non evoca in me alcuna risonanza. Forse è
semplicemente ispirato alla sorte di sua madre nonagenaria, inchiodata ad un
letto, senza memoria, senza neanche il piacere di riconoscere suo figlio./
Abbiamo avuto più di un anno per creare i nostri personaggi: […] nella sala
blu, ci accoglie la nuova scenografia: un pavimento di assi di pino intercalate
da fessure luminose. Con una bottiglia di vodka polacca, Eugenio la battezza
“Zattera della Medusa” e dice che in questo spettacolo non vuole proiettori.
Vuole solo candele, bastoni luminosi, torce ecologiche. […] L’illuminazione
deve essere fantasiosa e povera. Eugenio ci comunica che la danza, come la
musica, è uno dei temi centrali dello spettacolo, che si ripresenterà
costantemente, come una forma di basso continuo. Un altro elemento centrale
sarà la zoppia. Dobbiamo esercitarci ad essere zoppi. Questa piccola
limitazione ci aiuterà a vincere i nostri cliché, e ci darà nuove possibilità
ritmiche, dice Eugenio. […] Il lavoro inizia ogni mattina alle otto in sala
nera, con due ore di “vivaio”. Qui abbiamo la possibilità di far crescere i
personaggi che abbiamo creato. […] Per dare corpo alla maratona di danza, nel
“vivaio” ci alterniamo nelle braccia di Ana Woolf per imparare passi di tango e
milonga./ Il mio personaggio comincia ad uscire dalla sua “bolla” e ad
interagire con gli altri personaggi. […] Come cameriera Eugenio mi suggerisce
di introdurre del cibo da offrire ai compagni. […] Sugar [è il primo tentativo
di personaggio interpretato dalla Carreri] cammina impettita e determinata, con
passetti veloci. Le sue improvvisazioni hanno il carattere dei sogni dove si
propone un passato di violenze e soprusi. Ma nella sua realtà c’è posto solo
per il lavoro e il canto./ 13 maggio 2009.
Lo spazio dello spettacolo si è trasformato drasticamente: i ganci da macellaio
sono apparsi nel “magazzino”. […] Al termine di questo periodo di prove ho la
netta sensazione che il mio personaggio non sia necessario in questo spettacolo.
L’ho creato per sfuggire ai miei stilemi e aiutare Eugenio a rompere i suoi, ma
la verità è che Eugenio non sembra interessato a rompere i suoi cliché, anzi li
riafferma e li rinforza. Per questo il mio personaggio che è così “diverso” non
funziona, nel senso che non ha una funzione nella sua drammaturgia. Ma nel suo
discorso di chiusura, Eugenio mi sorprende quando tira le conclusioni di questa
seconda tappa della Vita cronica
dicendo: “Ora abbiamo lo spazio, i personaggi. La storia è chiara: come si
integra una persona? Abbiamo il personaggio di Julia che si lascia integrare e
quello di Sofia che non si lascia integrare. Siamo liberi, eppure ci sembra che
non sia una via d’uscita perché non riusciamo a trovare la chiave per aprire la
porta. Le monete che tintinnano sono parte della sinfonia sonora che accompagna
lo spettacolo. Il cibo è l’altro elemento: in questa società mangiamo quando
non abbiamo fame e beviamo quando non abbiamo sete”. Eccomi servita: le chiavi
e il cibo di Sugar sono funzionali. Eugenio ci lascia con una serie di compiti
individuali da risolvere prima del prossimo incontro a ottobre. || La terza
tappa inizia il 5 ottobre 2009./ Ci
siamo spostati in sala bianca per dare spazio alla costruzione della struttura
per gli spettatori. […] Eugenio riassume i temi dello spettacolo e chiede a
Julia di cambiare il costume: il suo personaggio non deve essere un uomo ma una
donna. […] Eugenio mi chiede di sviluppare il tema della porta/chiave e mi
chiede di scrivere dei testi su questo tema. A metà ottobre Eugenio comincia a
lavorare sulla tribuna degli spettatori rendendola parte integrante della
scenografia. […] || 2010. Eugenio decide di non usare, come era previsto, il
mese di febbraio 2010 per le prove della Vita
cronica, ma per rielaborare tutti gli spettacoli di ensemble dell’Odin
Teatret, cancellando la presenza di Torgeir [Wethal, ammalatosi di un cancro
maligno che, dopo alcuni mesi, lo porterà alla morte]. Eugenio vuole che
Torgeir si concentri completamente sulle cure e non partecipi alle tournée con
i vecchi spettacoli. […] Posticipiamo il prossimo periodo di lavoro sulla Vita cronica a maggio. Dal 10 al 26
maggio lavoriamo in sala bianca. […] Eugenio crea nuove scene e fa
continuamente cambiamenti radicali. Decide che Sugar deve parlare rumeno. I
miei testi vengono tradotti. Eugenio mi chiede di cantare una canzone mentre
poso i fiori sulla bara. […] Eugenio assegna anche ad altri compagni alcuni dei
compiti di Torgeir. […] La quinta tappa della Vita cronica si svolge nell’autunno del 2010. […] Quando
riprendiamo il lavoro il 29 settembre, troviamo la scenografia montata in sala
rossa. […] Eugenio continua a fare sperimenti con l’organizzazione dello
spazio, mettendo gli attori sulle scale, fra gli spettatori. A Wroclaw Eugenio
lavora sullo spettacolo alla presenza di 40 corsisti. || 2011./ I mesi di febbraio e di marzo sono la cornice della sesta
tappa della Vita cronica. È qui che
Eugenio chiama Jesper Kongshaug a correggere il disegno luci dello spettacolo.
Lo spettacolo ne ha bisogno per librarsi su un altro piano. […] La fine dello
spettacolo cambia diverse volte. […] La pazienza di Eugenio a volte mi pare
sovrumana. Aspetta per anni dei risultati che non ha nessuna garanzia di avere.
Lo fa perché non può farne a meno. Sulla sua intelligenza non ci sono dubbi, ma
c’è anche un’altra forma di intelligenza che lo guida. […] 3 luglio 2011./ Un anno fa [27 giugno 2010] celebravamo il funerale
di Torgeir. La nascita della Vita cronica
corre parallela alla sua malattia e alla sua morte. […] Torgeir ha iniziato con
Eugenio l’Odin Teatret nel 1964 e nel maggio 2011 ha inaugurato la tomba di
famiglia dell’Odin Teatret» (pp. 56-69).
[Roberta Carreri]
Il testo di Julia Varley è intitolato La nascita di Nikita: protesta e spreco,
che si apre con questo incipit:
«La vita cronica è per me uno spettacolo il cui processo è segnato
dalla morte. Ora che è quasi finito, comincio a intravederci una protesta
contro l’inevitabilità della morte e un’asserzione della necessità di
continuare, nonostante tutto. […] Quando dico che il processo della Vita cronica è segnato dalla morte mi
riferisco alle persone care che ho e abbiamo perso negli anni in cui con
intermittenza abbiamo provato questo nuovo spettacolo. Prima è morta Maria
Cánepa, una cara amica attrice cilena; poi Silvia Mascarone, la moglie di
Claudio Coloberti, il compagno con cui facevo teatro a Milano nella mia
gioventù e che ora lavora per gli archivi dell’Odin Teatret; poi Marco Potena,
l’uomo con cui mia madre ha convissuto tre decadi, […] poi Tony D’Urso, il
fotografo che ha seguito molte delle nostre tournée più avventurose e le cui
fotografie sono diventate delle icone del teatro; poi ci lasciò Torgeir Wethal,
uno dei fondatori dell’Odin Teatret, la prima persona del gruppo con cui ho
avuto contatto. Torgeir ha partecipato alle prove fino a tre settimane prima
della sua fine. Ci sono state anche sparizioni meno dolorose, ma egualmente
significative: Frans Winther, il musicista che è all’Odin dal 1987, ha lasciato
lo spettacolo, e ad un certo punto il regista [Eugenio Barba] ha ‘ucciso’ il
personaggio che avevo creato, in modo da farne nascere un altro. […] Ero in un
bar di Scilla in Calabria a prendere un caffè e cornetto per la prima colazione
quando Eugenio ha ricevuto la telefonata di Roberta Carreri che annunciava la
morte di Torgeir. È spirato qualche minuto fa, mi ha detto. Non dimenticherò
mai quel bar, il giornale aperto sul tavolo accanto alla tazzina di caffè,
Eugenio in piedi vicino al banco per pagare, il silenzio improvviso che mi sommergeva,
le mani che sostenevano il viso, lo sguardo perso nel nulla. Roberta e Iben
Nagel Rasmussen, Alice Carreri Pardeilhan e suo marito Erik, erano con lui:
“meno male”, ho pensato in un angolo della mia mente. […] Tutto cambia in un
secondo: avere e non avere, ci ripete sempre Eugenio. È giusto commemorare chi
ci ha lasciato, ma è necessario celebrare la vita. Dobbiamo continuare./
L’obbligo del lavoro ci ha sempre aiutato nei momenti più difficili: ritornare
a fare training quando Eugenio ha abbandonato le prove di Ceneri di Brecht; produrre lo spettacolo Theatrum Mundi per l’Ista del Portogallo già in programma quando è
morta Sanjukta Panigrahi; fare le prove quando le coppie del gruppo
divorziavano e i figli esigevano scelte chiare. Anche questa volta, finire lo
spettacolo è stato un obbligo sentito da ognuno di noi, che ci ha aiutato a non
lasciarci abbattere dall’inaccettabile. La presenza di Torgeir si prolunga
nella Vita cronica, anche se non
tutti gli spettatori sapranno vederla. Ho sempre avuto difficoltà a tollerare
la tendenza a dirigere morbosamente l’attenzione verso se stessi. Il primo tema
proposto dal regista [Eugenio Barba] aveva per me questo sapore. Ho reagito
malissimo. Volevo scappare dalla sala di lavoro. Cercavo di sentire e farmi notare
il meno possibile. Allo stesso tempo non potevo rinunciare a essere parte dello
spettacolo e quindi del gruppo. In fondo l’Odin è la mia vita. Come potrei
continuare ad esistere fuori e da sola? […] Per la mia “cerimonia funeraria”
predisposi una scena di pulizia – come fa Eugenio per le ricorrenze importanti
del nostro teatro – inframmezzata da aneddoti tratti da tournée e spettacoli
passati. […] Alla fine della seconda settimana di prove il mio tormento arrivò
al limite. Venerdì notte non riuscivo a dormire. Dovevo assolutamente trovare
una via d’uscita. Non potevo continuare a rifugiarmi in un angolo della sala,
chiusa nella mia pesante tristezza causatami dal tema datoci da Eugenio nel suo
tentativo di rompere tabù e automatismi. La sua provocazione per scuotere il
gruppo mi paralizzava. Rifiutavo il ricatto sottinteso nella frase “se non
riusciamo a lavorare assieme non ha senso lo sforzo immane per mantenere il
gruppo”. Ero imbarazzata […] Ero stanca di sentirmi dire che non bisogna
parlare in sala mentre al tempo stesso ogni decisione del regista [Eugenio
Barba] era spiegata e giustificata con lunghi discorsi che insistevano su una
scelta che cambiava il giorno successivo. […] Nando Taviani, l’amico
consigliere letterario che accompagna l’Odin da quarant’anni, parlò della
zoppaggine. Trasparivano nel suo discorso le lunghe conversazioni fra lui ed
Eugenio alla ricerca del cammino da seguire. Dopo aver introdotto la storia di
Giacobbe del Vecchio Testamento,
Eugenio ci chiese di preparare una scena dal titolo “la lotta con l’angelo”. A
differenza di Eugenio che ha vissuto la sua infanzia nel sud Italia permeato da
riti cattolici, da bambina ho avuto poco contatto con il mondo religioso. […]
Volevo invece parlare di Maria Cánepa, l’attrice cilena appena scomparsa.
Volevo darle voce e tenerla in vita attraverso il teatro. Nella mia scelta
della lotta con l’angelo, Maria diventò un angelo custode che mi proteggeva e
incitava./ Passò molto tempo prima di avere l’occasione di mostrare la scena
che avevo preparato. […] Presentai la scena una sera, dopo l’orario di lavoro.
Solo Eugenio e gli assistenti alla regia erano lì. Mi chiedo come mai sento
ancora emozione e paura, dopo anni e anni di esperienza, quando devo mostrare
qualcosa di nuovo. […] Alla fine del primo periodo di prove, Eugenio ha chiesto
a tutti di preparare per la successiva fase di lavoro la storia del proprio
personaggio, dandogli anche un nome. […] A me in particolare Eugenio disse: “Se
vuoi raccontare la storia di Maria, devi creare un personaggio cantastorie
molto diverso da lei. Non puoi essere tu, e tu non puoi essere lei”. […] Maria
– la mia motivazione iniziale – uscirà dalla Vita cronica per entrare in un altro spettacolo dal titolo Ave Maria./ Ci lamentiamo sempre che non
abbiamo tempo: il regista [Eugenio Barba] per leggere, gli attori per creare
materiali, i musicisti per provare le musiche. Prendendo a cuore le critiche
che gli abbiamo fatto in passato per i suoi comportamenti bruschi e impazienti,
Eugenio ha promesso che durante il processo per questo spettacolo si
controllerà e mostrerà il lato affabile del suo temperamento. Creiamo, così, un
tempo di circa due ore ogni mattino, un væksthus
(il vivaio) in cui lavoriamo liberamente in sala nera. Eugenio guarda, annota,
legge, sussurra commenti individuali agli attori. […] Ricordavo la rabbia
sentita da chi ha perso un amore. Mi era chiarissima l’immagine di qualcuno che
piange la mancanza di una persona cara, ma vedevo che non risvegliavo
associazioni nel regista. Ripetevo la sequenza aspettando il momento in cui
quello che era chiaro per me lo diventasse anche per chi guardava [cioè il
regista (Eugenio Barba)]./ Ancora una volta il burka! Non è possibile! È una
persecuzione! A ogni spettacolo Eugenio vuole nascondermi il viso e coprirmi
dalla testa ai piedi di nero. Capisco la disperazione del regista [Eugenio
Barba] che cerca modi per cambiare i propri attori, ma perché la soluzione per
me è sempre il burka? Non ne posso più! Però capisco che su un punto Eugenio
non transigerà nonostante tutte le mie proteste: dovrò ritornare ad essere
donna. […] Faccio chiamare Eugenio e gli presento questo nuovo personaggio
variopinto. Mi muovo velocemente in tutta la sala con gli stessi passi, gli
stessi movimenti delle braccia e della testa del mio zio d’America. Eugenio è
contento. “Funziona - mi dice – Nikita
mi piace”. Ha battezzato subito questo personaggio. […] Eugenio lavora con
l’idea che sono la moglie di un uomo morto in guerra e mi corregge di conseguenza.
[…] Quando dopo alcuni mesi di tournée e altre attività riprendiamo le prove,
Eugenio ci comunica che lo spettacolo non si chiama più Extra Large ma La vita
cronica. […] Per ogni nuovo spettacolo ci poniamo il problema della lingua.
Dopo l’esperienza del Sogno di Andersen
e della difficile traduzione dei testi danesi nella lingua dei diversi posti
dove lo spettacolo veniva rappresentato, Eugenio vorrebbe uno spettacolo senza
questo problema. Pensa a un testo che non debba essere capito, che potrebbe
essere anche in una lingua inventata. Immagina uno spettacolo in cui la
drammaturgia non è necessariamente retta dal testo. […] Anche se Eugenio
insiste che tutti dobbiamo imparare i nostri testi in una lingua inventata,
qualcosa mi dice che alla fine del processo rimarranno delle parole comprensibili»
(pp. 37-53).
[Julia Varley]
Il ruolo dell’attore Kai Bredholt, nelle vesti
di una vedova di guerra, è ben narrato nel testo Donna Vera, nel quale è possibile leggere:
«Nello spettacolo faccio
la parte di una donna, la vedova di un combattente basco. Ma la figura era
originariamente ispirata a Donna Vera, la mamma di Eugenio Barba. L’idea di
creare una figura femminile parte da una catena di pensieri messa in moto da
Eugenio stesso. Dopo una delle prime prove dello spettacolo nella sala blu, lui
[Eugenio Barba] mi ha proposto di utilizzare come ispirazione per il mio lavoro
una persona che io conoscessi direttamente. […] Pensavo che lo spettacolo
avrebbe potuto parlare di Eugenio, e che quindi quella donna doveva essere sua
madre, Donna Vera. Per questo ho chiesto ad Eugenio di fargli un’intervista su
di lei e sul tempo in cui lui era bambino. Ho anche preso in prestito da lui
delle fotografie: foto di quando Vera era una giovane ragazza, di quando era
una giovane vedova con due figli piccoli e di quando era una donna matura
affiancata da due figli grandi con i vestiti militari. Questo fu il punto di
partenza per creare la figura. […] Ho raccolto alcuni frammenti di testo
dall’intervista con Eugenio e con Pierangelo Pompa, che è assistente alla
regia, li ho montati per comporre un testo lungo in cui era Vera stessa a
raccontare la sua vita. Come nell’intervista di Eugenio, tutto il resto era in
italiano. Questo mi ha aiutato a trovare la voce di Vera. Mi riusciva facile
parlare e raccontare in italiano. Era come un canto morbido. […] I testi che
avevo scelto hanno dato vita a tre scene, in cui Vera racconta la sua vita. Una
di queste si svolge nella sala da pranzo della casa di Vera ed Eugenio. Lei
racconta dell’incontro con suo marito, e della sera di pochi anni dopo in cui
morì. […] Eugenio mi aveva descritto minuziosamente quella notte e di come Vera
lo avesse mandato a comprare del ghiaccio per il padre agonizzante […] Mi
sembrava un’immagine fantastica, e mi sarebbe piaciuto usarla. Per tanto tempo non
ho capito a che cosa servisse quel ghiaccio. Più tardi ho compreso che serviva
per far abbassare la febbre del padre./ Nel momento in cui nella scena era
Sofia e non più il pupazzo a rappresentare Eugenio bambino, potevo mandarla a
prendere un blocco di ghiaccio e farla correre per lo spazio, come aveva corso
Eugenio quella notte per i vicoli del suo paese. Mentre Vera scatenava il suo
caos, spezzando il suo canto in falsetto con l’altra sua voce, molto più
potente e profonda./ In questa scena eseguivo tante piccole azioni concrete:
apparecchiare la tavola, piegare un fazzoletto, lavare il cadavere, coprirlo
con un lenzuolo. Queste semplici azioni mi piacevano, ma anch’esse sono col
tempo diventate una routine, che doveva essere rotta con l’aiuto del regista
[Eugenio Barba]. […] Corri a comprare un
pezzo di ghiaccio// Donna Vera: “Vengo da una famiglia aristocratica. Ero
molto giovane quando mio marito Emanuele è morto e sono rimasta vedova.
Abitavamo a Gallipoli, una cittadina di pescatori. Avevamo due figli, Ernesto
ed Eugenio./ La morte non mi ha spaventato, ma per molti anni ho dormito con
una pistola sotto il cuscino, perché avevo paura che venissero a giustiziare
mio marito. Aveva combattuto dalla parte sbagliata durante la guerra. L’ho
conservata come ricordo. Non mi sono mai sentita a casa in Puglia, non era il
mio mondo./ Adesso che sono vecchia, chi mi sta più vicino è una famiglia
povera di peruviani, che vive a casa mia e si prende cura di me”./ Scegliendo
Donna Vera avevo sperato che lo spettacolo trattasse di Eugenio; che potessimo
trattare la storia di un ragazzo di Gallipoli. Non per trovare risposte alla
biografia di quel ragazzo, ma per sfidare la nostra abitudine a raccontare
sempre storie molto aperte e ambivalenti. Per dare un’identità alle tante
persone che nei nostri spettacoli subiscono delle offese oppure muoiono, o che
cantano e raccontano./ Ma lo spettacolo non ha trattato di Eugenio e della sua
vita. È un tema forse troppo vicino. “Non è interessante”, direbbe Eugenio.
Forse perché lui corre ancora nelle strade di Gallipoli col suo pezzo di
ghiaccio col terrore di non arrivare in tempo e vedere la morte negli occhi./
Eppure lo spettacolo tratta anche di Eugenio./ Una sera, a Città del Messico,
gli chiesi se poteva parlarmi di sua madre. Il giorno dopo, e quello dopo
ancora, ci siamo seduti uno di fronte all’altro e per cinque ore di seguito ha
parlato di sua madre e di se stesso./ Del pezzo di ghiaccio nella notte in cui
suo padre morì. Dell’anguilla nel pozzo di casa che bisognava stare attenti a
non pescare, perché l’acqua avrebbe rischiato di avvelenarsi e l’intera
famiglia Barba di morire. Ha raccontato degli zii ossessionati dall’idea del
suicidio e di come tre di loro, dopo vari tentativi, lo commisero davvero. Di
se stesso, l’unico della famiglia che andava in chiesa ogni giorno per pentirsi
dei suoi peccati anche quando non c’era niente di cui pentirsi./ Ha raccontato
di Vera che, in quanto donna, non poté seguire il feretro del marito al
cimitero e che da vedova non poté più mostrarsi per strada dopo l’imbrunire
senza essere accompagnata da uno degli uomini della famiglia. Vera, una donna
forte dall’umorismo bizzarro, che si piegava al suo destino senza perdere mai
la sua dignità, che non si risposò e da sola educò i suoi due figli a
frequentare questo mondo./ Ci sono anche tutte queste storie nella Vita cronica. Nascoste sotto molti
strati, ma ci sono: angoscia, felicità, dolore, colpa, morte, odio, umorismo,
sorriso, suicidio, canti, musica e solitudine./ Donna Vera: “Ricordi la notte
in cui è morto tuo padre? Tuo padre ed io eravamo stati invitati a casa di
amici. ‘Ritorneremo alle nove’, vi abbiamo detto. Erano le dieci e non eravamo
ancora tornati. Tu e tuo fratello avete sentito lo scalpitio di un cavallo, lo
stridore di una carrozza, voci alterate. Uomini sconosciuti hanno adagiato tuo
padre sul letto. Sono venuta verso te ed Ernesto e ho detto: ‘Non abbiate
paura’. A te ho detto: ‘Corri a comprare un pezzo di ghiaccio, poi vai dal
dottore e digli che tuo padre sta male. Dopo corri dal prete e pregalo di
venire con l’estrema unzione. Fa presto’.”./ Eugenio aveva dieci anni la notte
in cui morì suo padre. Oggi ne ha 74 e il pezzo di ghiaccio non si è ancora
sciolto» (pp. 29-34).
[Kai Bredholt]
La giovanissima attrice Sofia Monsalve scrive
il testo Quel che mio padre m’ha lasciato,
nel quale rilevo l’importanza di questi passi:
«Tutto è cominciato il 5
febbraio del 2008. Eugenio Barba aveva riunito i suoi collaboratori per
iniziare un nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. Ci siamo riuniti nella piccola
sala blu del teatro alle 7 di mattina nel buio dell’inverno danese. Eugenio
sembrava il leader di un gruppo clandestino in una città sperduta della
Danimarca, uno che stava organizzando un nuovo complotto, un patto di sangue,
una nuova avventura./ Era l’alba. Lui prese a parlarci delle superstizioni:
quegli scongiuri, parole, frasi o atti, che ci guidano nel momento di
affrontare il destino: il grido “Jeronimo” che i soldati paracadutisti
americani urlavano prima di lanciarsi nel vuoto.Con questa spinta superstiziosa
doveva iniziare lo spettacolo che, per Eugenio, doveva essere una bestemmia
rispetto alle nostre certezze. Poco dopo, ci ha presentato i percorsi sui quali
si sarebbe basato lo spettacolo. Fece il mio nome e mi dettò quella frase che
da quel momento non mi avrebbe più lasciato, accompagnandomi come un presagio,
un mantra, un grido di battaglia e di supplica, il mio “Jeronimo!”: “Sono
venuta perché mi hanno detto che qui c’è mio padre”. [… Dunque è] il 5 di
febbraio del 2008, [… sono] seduta accanto agli attori dell’Odin Teatret e di
fronte a un regista che ci invitava al complotto. Tremando per l’emozione
firmai il mio patto di sangue. Ero disposta ad abbandonare ogni certezza, la
mia lingua, la mia famiglia e le abilità che credevo d’avere./ […] “In un
villaggio deserto” fu il tema che Eugenio mi diede per la mia prima
improvvisazione. […] Dopo alcuni mesi di lavoro Eugenio decise che la scena
sarebbe stata un dialogo con il personaggio di Iben Nagel Rasmussen. […]
Durante i primi mesi di prove il mio lavoro era condizionato dagli altri
attori, ero come una marionetta nelle loro mani. […] Dal mio quaderno di
lavoro: “Oggi Eugenio, giusto prima della mia entrata in scena, è venuto da me
con una benda dorata per coprirmi gli occhi. Mi ha bendata in maniera tale che
non potevo veder nulla, neanche un’ombra. Mi ha detto: ‘Ora entra in scena e
fai tutto tutto quello che hai fatto fino ad ora’.”. Si è aperto un nuovo
spettacolo davanti ai miei occhi bendati. […] Quando Eugenio aveva concluso il
suo discorso, quella mattina del 5 febbraio del 2008, il sole era già uscito.
Con la luce erano arrivate le prime scene, e con le scene esplose il caos. E il
caos ci ha accompagnato per questi quattro anni, un caos fluttuante che assume
e perde forma; che si amalgama e poi si suddivide» (pp. 24-27).
[Sofia Monsalve]
Di Nando Taviani che cosa si può dire oltre
quello che ormai tutti noi sappiamo. Da più di quarant’anni egli segue e sta
accanto all’Odin come un buon padre, un caro fratello, un devoto figlio. A lui
dobbiamo tanto, soprattutto deve chi qui scrive, il quale non avrebbe potuto
mai conoscere così come conosce l’Odin Teatret di Eugenio Barba, senza letture
fatte sui testi di Taviani, il quale, per questo ultimo stupendo spettacolo
dell’Odin, scrive il testo Le Indie nere
dell’Odin Teatret. Scritti degli attori:
Le «”Indie nere” sono
anche le miniere del nostro teatro di Holsetbro: etiche artigianali,
esperienze, immaginazioni, motivazioni e necessità personali, quasi mai
visibili, ma capaci di mettere in moto e nutrire il lavoro visibile. […] Il
lavoro per La vita cronica è iniziato
nel febbraio del 2008 e si è concluso nell’autunno del 2011. In un arco di
quasi quattro anni, Eugenio Barba e gli attori hanno ritagliato alcune piccole
oasi di tempo liberato da ogni altro impegno in cui dedicarsi esclusivamente ad
un’opera nuova. […] IL tempo in cui l’intero ensemble dell’Odin si è dedicato
all’invenzione della Vita cronica
corrisponde, tutto sommato, a circa otto mesi di lavoro: febbraio 2008, maggio
2009, febbraio 2010, ottobre-novembre 2010, febbraio-marzo 2011, settembre
2011. […] A orientare le prospettive per l’elaborazione del nuovo spettacolo
c’erano all’inizio soltanto due titolo. Prima XL (Extra Large),
dall’apparenza talmente dozzinale da far ridere o pensare. Poi La vita cronica, semplicemente
enigmatico. […] Ancora viva, ma sempre più lontana, c’era la sorpresa del primo
giorno di lavoro, la fantasiosa infrazione delle regole, quando Eugenio Barba,
con un dribbling beffardamente autobiografico, aveva spinto l’ensemble in una
sorta di carnevale arcaico: la celebrazione del suo funerale. […] Fra una tappa
e l’altra, mentre l’opera restava in letargo, Barba immaginava scene e
montaggi, e nell’immaginazione li distruggeva, Immaginare e distruggere sono
azioni complementari per un regista a cui l’esperienza ha insegnato che un modo
per riuscire è quello di sbagliare volontariamente strada, e che la soluzione giusta è quella imprevista, che sorge da
sé, con la forza convincente della serendipità. […] Nessuno, né gli attori né
il loro regista-drammaturgo, aveva in mano un “piano di produzione” che
delineasse la trama, i testi e la sceneggiatura dello spettacolo a venire.
Negli ultimi vent’anni lavorare in questo modo è diventato normale nell’enclave
dell’Odin. […] È un modo di lavorare basato du un paradosso: per essere libero,
Barba deve lasciar mano libera agli attori. E viceversa gli attori conquistano
una nuova libertà di scelta lasciando mano libera a Barba e agevolando
l’indipendenza dei suoi interventi. […] Le cose, insomma, vanno alla rovescia:
non dal progetto alla sua realizzazione, ma dalla scoperta alla sua
comprensione; non dal soggetto al modo di interpretarlo, ma dall’emergenza
inattesa al modo di giustificarla. […] Far camminare le cose a rovescio è una
strategia cosciente, sperimentata, cresciuta da una storia precisa, difficile
da imitare. Caratterizza il comportamento dell’Odin anche aldilà della sua
pratica artistica. […] Gli scritti qui presentati sono stati composti nell’estate
2011, quando lo spettacolo non ha ancora assunto la sua forma definitiva.
“Forma definitiva”, nel nostro caso, vuol dire l’opposto di “forma prevista”.
In questo momento, tutti sappiamo che La
vita cronica, benché consista già di scene, relazioni e azioni ben definite
e fissate, potrà in pochi giorni di prove, mutare radicalmente aspetto, e
sigillare il proprio viaggio in maniera diversa dalle innumerevoli ipotesi di
volta in volta formulate dal suo regista-drammaturgo, o auspicate dall’uno o
dall’altro di coloro che hanno partecipato al lungo processo. […] Protagonista
è potenzialmente ogni attore. Per rendersene conto, basterà che uno spettatore
riveda più volte lo spettacolo pedinando con lo sguardo e l’attenzione ogni
volta una figura diversa. La drammaturgia qui è fatta apposta per permettere a
ogni attore d’essere facoltativamente considerato come centro dell’azione
complessiva, e per liberare ogni singolo spettatore dalla comoda ma usuale
situazione di spettatore teleguidato (letteralmente: guidato da lontano)./
Questo tipi di drammaturgia, fatta per liberare sia gli attori che gli
spettatori dalle tradizionali gerarchie drammaturgiche (primo attore,
personaggi secondari, ecc.) ritorna in tutti gli spettacoli dell’Odin Teatret,
in maniera particolarmente cosciente e raffinata da Min fars hus in poi./ Min
fars hus è dl 1972. Fu rappresentato per l’ultima volta nel gennaio del
’74. Due dei “protagonisti” di Min fars
hus sono presenti nella Vita cronica.
Un terzo [Torgeir Wethal], era presente fino a poco tempo fa, quando la
malattia e la morte l’hanno costretto per la prima volta ad assentarsi da uno
spettacolo del teatro ch’egli aveva contribuito a fondare. Gli attori, Eugenio
Barba, alcuni degli spettatori che da più tempo aderiscono al nostro teatro,
continuano a vederlo baluginare qua e là nello spettacolo. Nella Vita cronica
c’è una quarta persona strettamente legata a Min fars hus, benché non ne
facesse parte: l’aveva visto, e poi aveva chiesto di entrare nell’Odin. E
inopinatamente vi entrò. […] L’Odin Teatret è in vita dal 1964, molte volte si
è insistito sul record di longevità che detiene nel contesto del teatro
contemporaneo. Eugenio Barba ama ripetere che tale record equivale a “una
mostruosità, un affronto alla natura del teatro”. Immagino che così, esagerando
un poco, riesca a controllare gli effetti di quello strano cocktail che in
genere dà alla testa per la sua mistura di fierezza per il passato, presenza
sicura di sé, più il dovuto turbamento nei confronti del futuro. […] Ricordo il
primo giorno di lavoro per lo spettacolo che doveva chiamarsi XL e che poi s’è
guadagnato il titolo di Vita cronica.
Lo ricordo come un imprinting o forse un’alba irripetibile. Era il mattino del
5 febbraio 2008. Nei calendari tradizionali quel giorno era segnata come
Martedì Grasso: uno di quegli ultimi giorni di carnevale dei quali solo
vecchissimi libri conservano la memoria essenziale. […] La piccola stanza blu,
quel martedì del febbraio 2008, si riempiva di accessori e fantasmi teatrali.
In quell’ingombro mascherato cadevano tutto il tempo le maschere e le cortine.
Da dietro una di quelle cortine comparivano – realtà o immaginazione? – due
sorelle gemelle. Snudavano le armi e duellavano: Verità una, l’altra Speranza.
Non erano allegorie, erano sorelle. E non era possibile indovinare se quel
duello fosse un assassinio o una “lotta fiorita”, come in certe esotiche
contrade viene chiamato l’amore» (pp. 16-23).
[Nando Taviani]
Nella Vita
cronica l’attore Thomas Bredsdorff interpreta la parte dell’avvocato, la
cui zoppia è quella più vistosa. Scrive il testo Il teatro cronico:
«Il canto dell’Odin
Teatret sarà tra poco alle sue ultime note. Al prossimo anniversario rotondo
compirà 50 anni e il suo direttore ha da tempo raggiunto un’età più che
venerabile. L’energia non impone ancora limiti, ma la biologia lo farà presto.
Ineluttabilmente, a una data che si approssima ogni giorno di più./ Di regola,
il nostro pensiero rimanda a domani la consapevolezza della fine imminente.
Parliamo volentieri della morte, ma non della nostra. L’Odin Teatret ha scelto
un’altra strategia: guardare negli occhi la fine che si avvicina. Cosa succede
a un collettivo che fissa lo sguardo sulla propria fine? Questo era il punto di
partenza della Vita cronica./ Vi sono
diverse possibilità. Si può commettere suicidio insieme, come ha fatto il
collettivo religioso riunito intorno al suo forte leader a Jonestown nella
giungla della Guyana. Si possono anche evidenziare i segnali di morte nella
cultura in cui si vive e consolarsi constatando che non si è gli unici ad aver
raggiunto un’età venerabile, condividendo il declino dell’Occidente, secondo le
parole del filosofo Spengler. O si può sperare che qualcosa d’inatteso salti
fuori. È quello che, ai miei occhi, è successo nel processo che si è concluso
con La vita cronica. […] La lingua –
non il linguaggio scenico con le sue sfaccettature di luci, suoni e movimenti,
ma la lingua che esce dalla bocca sotto forma di parole – ha sempre costituito
un problema per l’Odin Teatret, i cui attori parlano lingue diverse e il cui
pubblico sparso nel mondo spesso comprende una lingua che nessuno degli attori
parla. Il fatto che per tanti anni sia riuscito a comunicare con spettatori di
diversi continenti la dice lunga sulle particolari capacità di questo teatro» (pp.
11-13).
[Thomas Bredsdorff]
Nella brochure
dello spettacolo, Eugenio Barba scrive due testi (Incomprensibilità e speranza; Il
primo giorno), dei quali riporterò qui i passi fondamentali. Ma prima è
necessario che io dica che per 40 anni ho inseguito il regista dell’Odin
Teatret che, finalmente e sodalmente, ho incontrato questo indimenticabile
novembre 2011. Alla fine degli anni ’70 non sapevo neanche chi fosse Eugenio
Barba, o meglio, per via di incroci parenterali acquisiti, sapevo chi fosse, ma
non ne conoscevo a fondo l’attività. Poi il tempo, piano piano e, soprattutto,
l’incontro a Roma con sua madre – Donna Vera Gaeta Barba –, che mi aiutò molto
mettendomi a disposizione i materiali per uno studio su un importante
personaggio dell’800, avo del regista - Emanuele Barba (Gallipoli 1818-1887) -,
mi aiutarono a cominciare a capire il personaggio attraverso un primo contatto
epistolare. Intanto, nell’immediato, ed anche per via di una certa assonanza
d’interessi (viaggi, poesia) ho conosciuto più da vicino il fratello del
regista – Ernesto Barba – un poeta e un giramondo che, pur di idee e ideologie
totalmente lontane e differenti delle mie, ha affascinato il mio percorso.
Eugenio, invece, si è sempre tenuto lontano da me, nonostante una breve
parentesi epistolare. Non ho mai capito il perché, nonostante che il suo
teatro, non appena l’Odin arrivò in Salento, cominciò ad appassionarmi
moltissimo. Praticamente, ho visto tutti gli spettacoli dell’Odin Teatret
rappresentati a Lecce e a Gallipoli, e tuttavia, la presenza qui di Eugenio
(anche quella estiva di Carpignano salentino) l’ho percepita sempre
contraddistinta da una certa sua diffidenza nei miei confronti. Mai un incontro
che si potesse dire essere tale. Tuttavia, e nonostante ciò, ho sempre amato il
regista, il suo modo di fare teatro, unico al mondo, e soprattutto amo i suoi
testi drammaturgici, degni di un premio Nobel. Questo fino al novembre scorso,
quando, finalmente, senza che io mi accorgessi di nulla, e dopo 40 anni di
inseguimenti, Eugenio mi ha teso le braccia e mi abbracciato.
Nel primo testo scritto, Eugenio Barba scrive:
«Mi è stato detto spesso
che i miei spettacoli non sono molto comprensibili. Penso allora a una
riflessione di Niels Bohr: il contrario della verità non è la menzogna, ma la
chiarezza. La verità è che a me in genere piace la chiarezza. Nei libri
apprezzo la complessità, ma se sono irreparabilmente oscuri la noia si
insinua./ A teatro è diverso. Mi capita di guardare uno spettacolo
comprensibile e di pensare a un panorama pietrificato: una distesa di ghiaccio.
Vivo questa sensazione: un panorama immobile è un panorama è un panorama
disperato./ Non c’è speranza quando si è convinti che non ci sia niente da
fare. La disperazione, prima d’essere uno stato d’animo, è l’accettazione più o
meno dolorosa dello status quo, l’ammissione delle forze in campo, di tutto
quel che è evidente, giudizioso e al quale, in fin dei conti, ci sottomettiamo.
La disperazione è l’inazione che deriva dall’intendere non solo bene, ma fin
troppo bene quel che ci circonda, quel che sta dietro gli avvenimenti e quello
che si prospetta davanti, nel futuro./ Un misterioso legame lega la speranza
all’incomprensibilità, mi dico. Forse non è un mistero, la speranza è solo un
modo di conservare la possibilità di illudersi. A me sembra qualcosa di più:
un’indecifrabile forza oscura che mi aiuta a vedere in dettaglio quello che
voglio rifiutare, senza rifugiarmi nella condanna generica e nella
rassegnazione. E senza illudermi d’aver trovato la chiave che rende chiaro ciò
che invece sperimento come complessità che confonde./ Mi piacerebbe che i miei
spettacoli fossero come correnti di mare, non come panorami immobili./ Ho
appena terminato un altro spettacolo. Lo guardo, mi sembra diverso dagli altri.
Una domanda mi angoscia: non sarà immobile? […] Se mi domando: “Che cosa è il
teatro?”, posso trovare molte risposte brillanti. Ma nessuna mi pare
concretamente utile per agire nel mondo che mi circonda e per tentare di
cambiare almeno un piccolo angolo. Se invece mi domando in quale recinto
paradossale dello spazio e del tempo si possano far affiorare le forze oscure
che spadroneggiano nella Storia e nell’interiorità dell’individuo, e come
renderle percettibili nella loro fisicità senza produrre violenza, distruzione
e autodistruzione, la risposta mi appare evidente: è il recinto chiamato
teatro./ Ho fatto, fino ad ora, spettacoli che si riferivano ad avvenimenti ed
esperienze del passato o del presente. Per la prima volta, La vita cronica è immaginata in un futuro prossimo, simulato,
simultaneo. La scena è la Danimarca e l’Europa: diversi paesi allo stesso
tempo. La storia è quella dei primi mesi dopo una guerra civile. Non è
un’ambientazione credibile (anche se non tanto incredibile da essere
consolante). Non è un insieme comprensibile. […] Non credo che il mio compito
nel teatro consista nel fornire un’interpretazione attendibile degli
avvenimenti che altri hanno narrato. Non credo neppure che consista nel
mostrare delle vie d’uscita dalla morsa in cui ci sentiamo intrappolati. Anche
se volessi farlo, non ne sarei capace. Credo all’impegno verso un altro
compito: dare forma e credibilità all’incomprensibile e agli impulsi che sono
un mistero anche per me, trasformandoli in una matassa di azioni-in-vita da
offrire alla contemplazione, al fastidio, alla ripugnanza e alla misericordia
degli spettatori. Questo è l’impegno che mi costringe ancora al mestiere del
teatro. Vorrei che questa matassa di azioni-in-vita infettasse la zona dove, in
ciascuno di noi, la miscredenza si intreccia all’ingenuità./ Si crede che uno
spettacolo teatrale abbia innanzi tutto il compito di comunicare. È vero fino
ad un certo punto. Per me il suo compito primario consiste nel creare relazioni
e condizioni di vita potenziata. Per chi? Per lo spettatore, per l’attore?/ Tra
le tante ripercussioni che amo del teatro, vi è il momento in cui fa capolino
una domanda bizzarra: che cosa si nasconde in quel che sembra totalmente
chiaro? La chiarezza è una forma di cecità, manipolazione o censura? Ancora uno
spettacolo incomprensibile? Vorrei che La
vita cronica aprisse uno spiraglio nel magma buio e incandescente
dell’individuo, e sul suo laborioso e vitale zigzag per liberarsi da un
abbraccio gelato: quello implacabile e indifferente della Gran Madre degli
Aborti e dei Naufragi, Nostra Signora la Storia» (pp. 4-8).
[Eugenio Barba]
Dell’altro testo di Eugenio Barba – Il primo giorno – è tutto da citare:
«(Dal mio diario) 16
settembre 2007: preso due decisioni. La prima l’ho chiamata L’interferenza del teatro. […] La seconda
decisione è più temeraria: un nuovo spettacolo con tutti gli attori. Sapremo
ancora creare uno spettacolo insieme dopo tanti anni? Ho già il titolo: La vita
cronica, il verso di una poesia di Paulo Leminski che Aderbal [Freire Filho] mi
fece scoprire sorseggiando un bicchiere di Tanat uruguayano. Per ora il titolo
di lavoro sarà XL, Estra Large./ Ho
telefonato subito a Nando [Taviani] e raccontato la prima immagine: una bara di
cristallo piena d’acqua nella quale nuota un’anguilla e una giovane annegata.
Poi altre idee, Antigone circondata da venerandi dottori, Sant’Agostino, San
Gerolamo, Origene, il bambino dell’ultima scena di Aliosha nei Fratelli Karamazov, la prima frase di
Pedro Pàramo di Juan Rulfo: “Sono venuto a Comala perché mi hanno detto che qui
abita mio padre, un certo Pedro Pàramo”. Qual è il tempo della primavera, delle
energie vergini, ignorate eppure accanto a te, dentro di te? La risposta è
evidente: la fine di una guerra, tra lutti
macerie. Incomprensibilità che si tinge di speranza. Gli attori si
allontanano dal dolore e dalla disperazione scossi da un filo invisibile, ma
udibile: la musica./ Incomprensibilità come compassione, intuizione della
sofferenza e della gioia dell’altro. E la speranza? Il piacere infantile di
raccontare segreti, porre domande, amare, inoculare dubbi, attraversare paesi,
libri, teatri./ Mi sento già stanco all’idea che debbo fare il meglio che
posso. Spero di avere fortuna e, con i miei attori, far meglio del meglio che
posso./ L’intelligenza, a teatro, non fa piangere. Sarò capace di far versare
una lacrima ad almeno uno spettatore? John Keats: il poetico è esperienza senza
pensiero. Non dimenticare Laurence Sterne: I
progress as I digress./ L’impietosa scalata del calvario insieme ai miei
attori: le tensioni e incomprensioni per realizzare insieme la tradizione della
rottura, per lottare giorno dopo giorno contro i cliché che ci allontanano
dalle nostre fonti vitali./ la vita sotterranea del teatro» (p. 9).
[Eugenio Barba]
Dentro il cuore mi piangeva a diluvio, domenica
13 novembre 2011, alle 11 di mattina dentro una sala sconosciuta dei Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce, vedendo l’Ave
Maria, l’ultimo spettacolo in allestimento di Eugenio, che l’Odin Teatret
porterà in giro per il mondo nel 2012.
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