Lamberto Pignotti
FONTANA …CHE DIGERISCE L’ANIMA
È un viaggio al termine del corpo, è un’Odissea alla
scoperta delle esteriorità e delle interiora anatomiche triturate da un
contesto globalizzato e omologato di ciò che ancora ha la parvenza umana, è un controcanto
verbovisivo e sinestetico che richiama e intreccia i miti ulissiaci della trama
di Circe e del canto delle Sirene.
“Circe canterellava con leggiadra voce / ed un’ampia
tessea, lucida, fina, / meravigliosa, immortal tela…”. Si sa come va a finire
per gl’incauti che abboccano agli inviti della seducente riccioluta maga, che
se la bevono la pozione esiziale. Rinchiusi nel porcile con testa, corpo,
setole e voce di maiale. La trama della maga può apparire concettualmente
finalizzata ad anticipare quella capricciosa performance oggi messa in atto dal
contesto socio-culturale.
Nell’abituale rapporto tra figura e sfondo, oggi
l’aggressivo sfondo sfonda la figura, la ben collaudata trama prorompe in
trauma. I corpi, violentemente reali, oscenamente iperreali, rivelano che la
loro struttura è in crisi: le loro malattie, le loro decomposizioni, il loro
coma vegetativo è presentato con macroscopica evidenza.
“Ci sono corpi che non tornano. E qui i rifiuti. Resti
ingombranti. Troppo. Ormai. Troppi. E disperati. Placcati dall’ingiuria del
mercato. Corpi di scarto. Oggetti. Con difetto di tempo. Rigetti. Ghetti… Direi
volti sconvolti. In risvolti subumani. Reperti trascritti da residui stravolti.
Cui non è possibile dare un nome. Distratti. Che sfuggono”: così scrive
Giovanni Fontana evocando scandite, assordanti, Questioni di scarto, che preludono alla presente serie di lavori, …che digerisce l’anima, allestita alla
Galleria Marcantoni di Pedaso.
Fontana, proseguendo l’indagine verbovisiva iniziata
con la serie delle Sirene nel 2007-
2008, si insinua nel rapporto traumatico instaurato tra il corpo – soprattutto
quello femminile – come identità ordinariamente riconosciuta e il suo consumo
che ne fa la comunicazione mediatica, si insinua mettendo intenzionalmente in
crisi la centralità dello sguardo della cui disgregazione aveva già indagato
Lacan, proprio perché lo sguardo è il modo con cui si soggettivizza un mondo
visivo, oggettivo, gerarchizzandolo ai nostri valori.
Lo sguardo tende consapevolmente o meno a compiacere
colui che guarda. Per abitudine si vede il previsto. Interrompendo una tale
pacifica e pigra convenzione Fontana mira a mettere in crisi non solo ciò che si guarda ma anche chi guarda, dando origine a una diversa
messa in scena del corpo che infrange il confine tra soggettivo e oggettivo.
Per contiguità viene in mente un certo Merleau-Ponty quando ci avverte che il
corpo non è solo un oggetto nel mondo, bensì il nostro punto di vista sul
mondo.
Se il corpo, per via dei richiami reiterati e suadenti
delle Sirene mediatiche può assumere e prospettare un significato distorto,
esso non può essere descritto e raffigurato in modo pigro, usuale,
consolatorio: si deve abbandonare di conseguenza il punto di vista
rassicurante, l’adescamento delle sirene, e imparare a sovrapporre sguardi
diversi e visioni simultanee, creando mappe inedite, in continuo aggiornamento
e divenire.
Proprio dall’adescamento delle sirene “che affascinan
chiunque i lidi loro veleggiando tocca”, Circe aveva messo in guardia Ulisse,
avvertendolo che “le Sirene […] mandano un canto dalle argute labbra, / che
alletta il passeggier, ma non lontano, / d’ossa d’umani putrefatti corpi / e di
pelli marcite un monte s’alza”.
Facendo tesoro di siffatto ancestrale avvertimento
Fontana se ne avvale non tanto per girare al largo da quel canto, quanto per
coglierne il senso ai fini del superamento di un complesso di inferiorità nei
confronti dell’ottica prevaricante e di un accrescimento di conoscenza
nell’ordine della plurisensorialità: “La voce delle sirene”, egli scrive nel
contesto della sua recente monografia pubblicata dalla Fondazione Berardelli,
sotto il titolo Testi e pre-testi,
“ci attrae finché non abbiamo avuto la forza di ascoltarla. Il loro incanto, la
loro seduzione irresistibile, la potenza della fascinazione sono sprigionati
dal mito delle voci, dall’ascolto della descrizione delle loro qualità; e la
paura di naufragare sulla barriera di scogli ne sostiene l’immagine terribile;
ma in realtà lo sguardo e l’ascolto nel tentativo di superare l’ostacolo
segnano sinesteticamente il coraggio della conoscenza”.
Fontana si misura qui con l’immagine del corpo,
prevalentemente quello della donna, evidenziando i suoi particolari,
soffermandosi sugli spazi convenzionalmente più nascosti, passando dalla
suggestione erotica a uno sguardo clinico, cinico, gelido. Anatomici dettagli
di carne, brandelli di biancheria intima, armamentari bellici, ossessive
apparizioni di occhi, dirompenti spezzoni di stampa, residui di punteggiatura,
incalzano e spingono verso il momento della deflagrazione, dell’implosione,
dell’evento traumatico: da una parte il trauma denuncia una rottura della
corporeità, dall’altra esso tende a restituire una testimonianza di
sopravvivenza.
Su questo specifico franoso crinale Fontana allestisce
un cantiere di sperimentazione che si avvale o presume molteplici linguaggi
verbovisivi e plurisensoriali – l’immagine, la parola, l’ammiccamento
scultoreo, tattile ed erotico… – prospettando una eterografica narrazione che
corre sul filo in un equilibrio studiato, in un caos attentamente governato, avvalendosi di una serie di de-contestualizzazioni e ri-contestualizzazioni, di stratificazioni e
interferenze, originando un’operazione semiologica in cui l’immaginario
infrange le logiche spaziali per dar vita a un codice comunicativo ammiccante,
fra disastri e ironie, fra edonismi e inquietudini, fra bulimie e anoressie,
fra appetiti e indigestioni, fra limitatezze ed eccessi, fra spostamenti e
sovrapposizioni e interazioni, fra articolazioni e aggregazioni e
disgregazioni, – tutti processi incentrati sul corpo – a una sorta non più
oltraggiosa e sanguinolenta di body art contestualmente intermediale.
“Eccola l’intermedialità, appunto”, scrive Marcello
Carlino in un preciso passo del saggio introduttivo alla monografia citata di
Giovanni Fontana, “intermedialità di cui un precedente e un ganglio teorico è
il montaggio, caro a tutte le più grandi avanguardie […]: non è l’allineamento
o la contaminazione di taglio postmoderno, non il concorso a gerarchia
prestabilita e a graduatoria chiusa […], l’intermedialità è convegno
sinestetico in cui flussi plurilinguistici e polisemiotici circolano
scambiandosi valenze e proprietà, è fittissima interlocuzione di codici e di
forme espressive, è per ciò uso della tecnica non nel verso di una
semplificazione del testo e di una rastremazione del messaggio, ma nel verso di
una complicazione, di un rinforzo polisenso, di una protesi mobilizzante e di
una amplificazione della performatività delle scritture, di un coadiuvante
della espressività e della gestualità e dunque della concretezza materiale, ‘organica’,
dell’evento artistico restituito come ‘corpo’ pulsante e vitale”.
Dunque la nuova serie di lavori di Giovanni Fontana, …
che digerisce l’anima, procedendo sulla
via dell’intermedialità, avvalendosi di una segnaletica plurilinguistica,
metabolizzando il montaggio e l’aggregazione nell’accezione sinestetica, muove
decisamente verso quel genere di dilatazione e accrescimento della semiosi a
suo tempo prospettato da Umberto Eco – penso al suo Trattato di semiotica generale ma anche al suo “romanzo
illustrato”, La misteriosa fiamma della
Regina Loana, narrazione verbovisiva, non per caso la meno compresa e
apprezzata dal sistema critico ufficiale – dilatazione e accrescimento in grado
appunto di giocare il sistema (globale, politico, culturale, mediale,
artistico…) che ci sta giocando.
Già, un gran bel gioco… che una calca ansiosa di
replicanti morirebbe dalla voglia di conoscere le regole e il nome, e a cui,
giocando di anticipo e di rimando si può (e lasciateci divertire…) giocosamente
rispondere: “Aspetti; ce l’ho sulla punta della lingua…”
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