Una
frase quasi trasparente
L’Iguana, dall’allegoria all’eufemismo
Alessandro Gaudio
Lo spazio dal quale
prende le mosse l’allegoria allestita da Anna Maria Ortese è lo specchio, forma
e oggetto asemiosico per eccellenza. Sono cinque le volte in cui esso partecipa
della storia dell’Iguana: la prima
serve a ricondurre la vanità di Estrellita
all’atteggiamento un po’ mondano delle donne che contemplano con troppo
trasporto la loro immagine; la seconda interviene nel processo di ringiovanimento
di don Ilario che, «simile a un paradisiaco uccello» (p. 70),[2]
comincia a trasformarsi nel sembiante; nel terzo episodio, un pezzetto di
specchio portato da Felipe nello scantinato dove vive l’iguana le chiarisce
quale sia il suo aspetto effettivo; la quarta esperienza speculare consente il
raggiungimento di una sensazione di serenità quasi ultraterrena da parte del
conte che, attraverso «un’anta adorna di un lungo specchio, nel quale si
rifletteva l’obliquo mare» (p. 142), comincia ad avvicinarsi alla rivelazione,
poi pienamente definita nell’immagine di se stesso riflessa sul vetro della
finestra della sua camera; tale quinta occorrenza speculare separa, per la
prima volta con coscienza, la funzione del reale dalla funzione del vero e, così,
inaugura e conclude un tragitto percorso dal lettore lungo tutto il romanzo.
Riassumendo, lo specchio è, dunque, pura forma; è un oggetto che non postula
alcuna significazione ed è in grado di riprodurre esclusivamente il
contingente, propone una visione del reale che non manca di nulla, che è priva
di resto. Da simbolo della visione inalterata, insignificante, delle cose lo
specchio, passando come si vedrà attraverso il mito, diventerà allegoria della
visione esatta, del pensiero profondo, del lavorio dello spirito che quasi si
fonde con la lettera di ciò che rimugina.[3] Tale
passaggio è frutto del tradursi, anche sul piano linguistico, di un progressivo
chiarirsi di un’immagine o di una impressione:[4] su
ognuna di esse si riflette, infine, come se si dovesse ricomporle sulla
superficie frammentata di uno specchio rotto.
È mediante
l’allucinazione vera che la scrittrice dell’Iguana,
come anche quella che tanti anni dopo scriverà Alonso e i visionari, testimonia
in modo meno sicuro della realtà;
poiché l’informazione non è congelata, privilegia una forma intuitiva
dell’oggetto: la si chiamerà, dunque, immagine.
Questa ha due peculiarità essenziali e distinte che, però, dispongono di una
stessa energia: la prima consiste in un intellettualismo dimesso, impoverito,
che, tuttavia, non rinuncia al quotidiano e a un’analisi estremamente sottile
di esso; l’altra è sensazione indebolita, impressionisticamente volta a
riprodurre i fatti fisici e psichici sin nelle sfumature più minute. La Ortese
lavora su piani diversi, servendosi di una prospettiva che restituisce
l’oggetto descritto come se fosse riflesso contemporaneamente in una serie di
specchi oppure, lo si è appena detto, nei diversi frammenti di uno specchio
infranto: «quante verità sono sparse, come in uno specchio rotto per sempre,
frantumato in mille piccole schegge, in questa storia».[5]
Questo luogo del vero, centro dei fenomeni psichici, resta esterno all’ordine
della ricostruzione esatta, scientifica; a esso non viene riconosciuta alcuna
realtà propria: è lo spazio distintivo dell’esperienza e dell’incoerenza, nel
quale nulla è omesso e nulla è sistematico. È anche il luogo in cui
l’intelligenza, intesa come cosa dolorosa,
partecipazione profonda al dolore del mondo, si confronta, col puma o con
l’iguana, bontà e maestà della Natura,[6] e
agisce dotandosi di un nuovo sentimento e di una nuova visione delle cose e
prendendo le distanze dalla normalità, dall’uomo malato, «incapace di prendere
visione di dati reali, di esaminarli e confrontarli, e di nuovo riesaminarli e
riconfrontarli».[7] Questo dolore di capire
percorre tutta la produzione ortesiana (e non soltanto quella romanzesca) dall’Iguana fino ad Alonso, dal conte fino a suo fratello, Jimmy Op.[8]
Qui, in quelli che Lacan
chiama scantinati del reale e che la Ortese definisce avanzi dell’Universo o
residui della Creazione,[9] alla
conoscenza razionale si affianca lo scarto della vita mentale e allo psichismo
si sommano i sentimenti, le credenze, i deliri, le intuizioni, i sogni e la
constatazione che il reale è composto da più strati. Alla significazione si
aggiunge l’insignificanza, al linguistico lo psichico, al letterale si somma il
contingente e al reale la conoscenza di questo, fatta di associazioni incerte,
instabili, nebulose, aperte. È qui, ancora, che nasce il mito.
La definizione della
realtà operata dalla Ortese (esperienza fatta di sguardo e di apparenza)
consiste nel processo di unificazione del complesso cenestesico delle
sensazioni; è un residuo inesplorato di vita sensibile, corpo frammentato e
spezzettato che finalmente si raccoglie in un sembiante, simbolico e
immaginario, che viene smascherato soltanto nel momento in cui se ne ritrova il
senso proprio a partire dalla rilevazione di uno stadio dello specchio:[10] la
narrazione dell’Iguana, denunciando l’insufficienza
della realtà naturale, si consuma su
questo margine del mondo visibile, posto eccentrico dal quale si stabilisce la
relazione tra l’organismo, simultaneamente interno ed esterno, e la sua realtà.
Il racconto parte da questo baluginio dell’inesauribile molteplicità e divino
spirito di natura: l’iguana, ambigua e anfibia, proiezione dell’inconscio
abissale, indifferenziato e originale, metafora che viene fulminata (cioè
dotata di senso) soltanto dal riflesso della propria immagine. Ma cos’è questo
riflesso che deforma, che ritorna al di là dell’oggettività?
È stato detto che lo
specchio, in quanto designatore rigido, dice la verità in modo disumano,
animale: la sua natura disumana restituisce, cioè, un’immagine non
interpretabile.[11] A esso la Ortese affianca
l’anafora, altro artificio inquadrante che, come il primo, è parassitario
rispetto al referente. La compresenza di questi due artifici annette al pur
alto quoziente di simbolicità del romanzo una nuova dimensione immaginaria, più
specifica, in cui la pregnanza del segno è diluita e la storia tipo è sostituita dalla storia
occorrenza. Così facendo, la scrittrice rinfresca il sostrato mitologico
del suo racconto, in modo che sia possibile distillarne direttamente una
parabola di riconciliazione con l’animale, che incarni il risoluto rifiuto
opposto ad alcuni eccessi dell’uomo nella tarda modernità (irresponsabilità,
incapacità di immaginare l’altro, esotismo, puro consumo, soltanto per citarne
alcuni): la prosa ortesiana si dota di ciò che lei stessa definirà
junghianamente come «spirito di pace»,[12]
disumanità (diversa da quella che restituisce lo specchio), qui intesa come
profondità mistica da opporre all’iniquo accecamento e all’umano odio del vero.
Nel personaggio dell’Iguana è possibile riconoscere ancora l’animalità
brulicante di Echidna, verme squamoso, metà serpente e metà uccello, palmipede
e donna, belva che sale dal mare o Melusina, come anche la principessa
lucertola, evocata da Adorno in quanto donna il cui fascino deriva dalla mancanza
della coscienza di sé. Essa è una Sfinge senza enigmi, che corrisponde
specularmente all’immagine che le viene assegnata: ovviamente, però, non è
un’immagine a carattere speculare; si tratta di una figura, incapace di
autodeterminarsi, che subisce le leggi del discorso, della parola che la
designa («Aiutami. / Riconoscimi. / Salutami. / Col mio nome chiamami, / non
con quello del serpe», p. 182, sono alcuni dei significativi versi che chiudono
il romanzo). In realtà, la Ortese allestisce sul mito dell’iguana (forma più
concetto), così come farà poi con il mitomane
Opfering, una mitologia di secondo grado, negativa, ma politica, che agisce
contro l’ideologia capitalistica imperante. Il capitalismo (e, in particolare,
la sua deriva ontologica) costituisce il movente che fa proferire il mito: è il
concetto mitico vero e proprio; per definire e motivare tale concetto l’autrice
alterna correttamente a esso la forma corrispondente: l’iguana. Forma e
concetto sono, cioè, concomitanti.[13]
A un primo livello, la
Ortese trasforma un senso in forma. Ruba la figura dell’iguana, non per farne
un simbolo o un esempio, ma per naturalizzare mediante essa l’accettazione
delle logiche capitalistiche più diffuse. Nel far ciò sfrutta una lingua che
non impone un senso pieno, indeformabile, al concetto di ‘iguana’ e della
parola che la designa: impiega una lingua che resta vaga, che (disponendo di
uno spessore virtuale) lascia sospesi gli altri sensi. In questa intercapedine
il mito dell’iguana si gonfia. Lo stile della Ortese e gli sviluppi
argomentativi del suo primo romanzo risiedono proprio in questo interstizio.
Scegliendolo come modo, la scrittrice
fa del mito la chiave per ribadire, a un livello secondo, la funzione che essa
accorda alla letteratura: produce, insomma, un mito artificiale, un mito al
secondo grado. Mentre sul piano diegetico l’autrice pone un attore (Daddo)
incaricato di percepire il mito (l’iguana) e di farlo significare su se stesso,
la significazione finale, complessiva, sarà data, sì, dall’opera, dall’iguana,
dal lettore, ma anche da una disposizione contro-mitica, propriamente nostra, che
la Ortese suggerisce e preconizza letterariamente. Tale inclinazione supera la
mera notificazione intrinseca al mito che, allo stesso modo dello specchio, non
nasconde nulla. L’ingenuità di Daddo (così come quella che traspare dagli occhi
della creatura) è ancora lontana dalla piena riflessione dell’io; è, invece, lo
specchio di cui si serve il mito alla seconda per raddrizzare l’immagine del
mondo, per risignificarla. Il disegno che ne viene fuori consente di passare
dall’ultrasignificazione del mito all’infrasignificazione della poesia.
Il regime di questa
immagine, così codificata (lo si vedrà) anche sul piano grammaticale, è
mistico: nella sua segreta intimità, nella sua ambivalenza, nel continuo
processo di raddoppiamento delle immagini, la Ortese trova una risposta-colore; una sorta di realismo
sensoriale che anima le cose, ma che non accontentandosi di descriverle
dall’esterno sfocia in un certo panteismo; il modulo è ripreso efficacemente
nell’opera della Ortese più simile all’Iguana:
in Alonso e i visionari tutto respira
convulsamente intorno ai protagonisti.[14] La
profondità dello spirito ortesiano è data dai colori e dalla natura
dell’oggetto che permette di localizzarlo e di rivelarne l’intima
significazione, un po’ alla maniera della letteratura romantica. Ma non
soltanto da ciò. È uno spirito che anima l’oggetto, lo penetra con la stessa
esasperazione cromatica del Van Gogh più maturo: piena d’angoscia, ma forte del
suo impegno morale, la Ortese dell’Iguana
si interroga sul significato dell’esistenza; lo fa mediante un’idea di
letteratura, dotata di un fare etico, che mira alla scoperta della verità e si
pone contro ogni tentativo di alienazione e di mistificazione. In effetti, non
si tratta di rappresentare la realtà in superficie o in profondità: l’autrice
indaga la struttura della sensazione, superficie limite dolorosa, miscuglio di
essere e di niente, servendosi della perseveranza percettiva e della coscienza
che – allo stesso modo che per Van Gogh – si fa esistenza. Per affrontare il
reale e scoprirne il contenuto essenziale, essa oppone al senso delle parole il
senso delle cose: una pronunciata ricerca etica che, passando attraverso la
piena comprensione dell’alterità (che non la ignora, non la nega, né la
trasforma), ritrova l’identità frammentata del proprio essere e della propria
coscienza. Come l’artista di Arles, la Ortese scopre il limite delle cose, ma
pur paventando un margine di virtualità positiva e auspicabile, non riesce a
liberarsene del tutto.[15]
Quella della Ortese è,
dunque, una visione colorata che si serve dello specchio e (è stato detto)
delle regole antifrastiche dell’aporema:[16] io
dico di quelle dell’eufemismo, inteso come riflessione (talvolta finemente
ironica) sui sensi contraddittori del reale e sulla loro incomprensibile
comunione. Qui, colore (superficie) e sostanza (profondità) coincidono: il
primo, anzi, diventa l’assoluto simbolico della seconda. Nel momento in cui la
materia comanda la forma, la varietà delle sfumature di colore diviene il
riflesso di una realtà ricchissima, velo di Mâyâ-Melusina che promette risorse
inesauribili che, però, non possono essere viste dal battello-guscio di Daddo.
È appena il caso di precisare la commistione tra l’aspetto femminile e materno
e quello negativo e temibile di Mâyâ, grande dea acquatica, Mamma-mare, ingannatrice
e seduttrice al medesimo tempo, con il suo corteo di veli e di specchi, che
trova la sua immagine privilegiata nella grande varietà di sfumature di colore
proposta dalla Ortese; come negli esempi che seguono, tutti concentrati in
sequenze attigue:[17]
trombette e certi carrettini di legno giallo e verde, col cavallino bianco
bardato di rosso (p. 22); Il tempo
era sempre buono, ma non vi era più quello smagliante azzurro, quel sole, anzi la luce appariva vagamente velata, come se
vi fossero nuvolette, che invece non c’erano. E il mare non era più turchese: aveva preso una tinta di argento brunito, come il dorso di un
pesce (ibidem); Una luminosità gialloambrata era tutto ciò che appariva
all’orizzonte (p. 23); si presentò lontanissimo, in quella luminosità, un punto
verde bruno (ibidem); Uno di loro, il
più giovane, dalla testa biancodorata,
leggeva qualcosa (p. 24); vestiva, come gli altri, di panni poveri e colorati
[…] ma, diversamente da quelli degli altri, ch’erano sul verdone e il blu, con un
effetto generale di viola, i suoi
erano chiarissimi: un gilet di velluto giallo,
calzoni celesti, anche di velluto,
calze rosse e, per finire, una camicia
di tela verde, riccamente ricamata e
logora (p. 27); una bestiola verdissima
[…] con una sottanina scura, un
corsetto bianco […] e un grembialetto
fatto di vari colori […] a nascondere l’ingenuo muso verdebianco, quella servente portava una pezzuola anche scura (pp. 29-30).
Molto spesso la sfumatura
scelta è la sintesi inedita di due toni che corregge i due semi-colori da cui
trae origine e intensifica quell’effetto di stupefacente e inquieta
illuminazione del reale. Si è già rinvenuto gialloambrata,
biancodorata, verdebianco; si trovano anche doratolivido (p. 53), rosa-aurora
(p. 89), bigiorosato (p. 134) grigio-oro (p. 140); ma tali sintomi
della pulsione a correggere, a ridefinire e ad animare della Ortese si
riscontrano anche in altre formazioni nominali ambivalenti, come fanciulla-bestia (p. 78), pulcino-immagine (p. 83), Segovia-Mendes (p. 85), Soavi-fischianti (p. 100), Mendes-Marchese (p. 105), don Jeronimo-Ilario (p. 87), alternato a
don Ilario-Jeronimo (p. 120).
L’eufemismo, luogo della
confusione tra un senso passivo e uno attivo, dispone di un equivalente
figurativo nel pozzo (che, danneggiato, apre il romanzo e ritorna nelle ultime
pagine), sul quale piegarsi nel tentativo di guardare di discernere dentro di
sé la realtà esteriore: mondo notturno, esatta immagine capovolta del nostro
mondo, all’interno del quale discendere «spezzandosi in tutto il corpo per
trarne la misera Iguana» (p. 169).[18]
Questa figura della sostituzione, come Ocaña, piccola isola fortunata su un
mare tempestoso, è la radice dell’immagine
cardine dell’Iguana; essa ha tre
peculiarità: l’ocularità, attitudine naturale a tradurre ogni sensazione e ogni
traccia percettiva in temi visivi, la profondità, quella intesa più in senso
psichico che geometrico di cui si è appena parlato, e l’ubiquità, che allude
allo statuto plenario del luogo simbolico.
L’immagine che ne risulta si serve, altresì, della forza spirituale
della lingua che sfrutta e ripete, spesso compulsivamente, sostantivi e
fenomeni linguistici, secondo un modo d’impiego ripreso significativamente
molti anni più tardi nella «scrittura quasi automatica»[19] di Alonso; il periodo che segue mostra
esemplarmente gli automatismi della sintassi ortesiana all’altezza dell’ultimo
romanzo:
Restammo un
pezzo seduti là; Camera ogni tanto
guardava l’orologio – dovevano venire a chiamarci perché le visite, in alcuni casi, erano decise di volta in volta, nel quadro dalle
dodici alle quattordici – e non solo Camera, ma anche Ingres temeva che ci
fosse un rinvio a causa di qualche
imprevisto.[20]
Tra i fenomeni più
frequenti nell’ordito sintattico e grammaticale dell’Iguana è necessario segnalare l’uso degli indefiniti e dei
dimostrativi spesso in funzione anaforica e anche di disarticolazione della
deissi, la ripetizione di uno o più frammenti sintattici, il servirsi di
periodi ovattati o corretti tramite le parentesi, gli avverbi di dubbio, le
locuzioni avverbiali e gli aggettivi con valore avverbiale e, in genere, una
marcata aggettivazione, usata (come si è in parte visto) non soltanto in
funzione qualificativa. L’immagine,
così definita linguisticamente e sintatticamente, rinuncia alla precisione (ma
non alla presa di coscienza della situazione), per lasciare spazio alla
fantasia del lettore. La presenza di quantificatori indefiniti (aggettivi e
pronomi quali qualche, qualcosa o qualcuno, alcun, alcuno, alcuni o alcune, tale o taluni, certa o certe, qualsiasi, alquanto) è funzionale ovviamente alla
rappresentazione dell’indeterminato:
qualcosa, nel suo carattere, di punto in bianco s’incantava
(p. 24); leggeva qualche cosa, a
ridosso del grande albero (ibidem); qualche vanità doveva pure, nella sua
misera vita, esserle rimasta (p. 31); Essa mormorò qualcosa d’incomprensibile (ibidem);
una qualche verità sfuggita alla dura
mente (ibidem); quasi in un angolo di
quello scenario qualcuno andasse
ripetendo su una ukulele una frase musicale assai dolce (p. 53); qualcuno toccò la sua porta (p. 57); per
qualche grave fatto o mutamento
intervenuto nella vita di quegli esseri (p. 80); Ci fu, da parte della
creatura, un altro lieve movimento del collo, come se proprio là qualcosa dolesse (pp. 147-148); Essa, in
qualche modo, ne aveva sentito
parlare (p. 153); siamo tenuti a testimoniare di alcune deboli grida che si
udirono lassù (segno che il
viaggiatore era in qualche giù) (p. 162).
Si vede bene dagli esempi
proposti (il cui effetto è accentuato dal fatto che spesso siano
compulsivamente concentrati in una stessa pagina o, comunque, in parti contigue
del romanzo) il modo in cui la particolarità appena riferita non
necessariamente si compie e, invece, induce a dubitare della identità di una
essenza, di una descrizione, trasportando il lettore in un mondo miracoloso
(forse più che mistico e, senz’altro, più che nichilistico) in cui è più
difficile recuperare l’informazione. Lo si può agevolmente comprendere dal tono
indefinito di moltissimi passaggi rintracciabili lungo tutto il romanzo:
simili alle nervature che coprono taluni petali di fiori (p. 27); e raccontò come fosse in viaggio da
alcuni giorni (ibidem); e fecero una tale
confusione, dentro e sotto la sciarpa bianca (p. 32); aveva messo un tale slancio (p. 33); alcune guaste suppellettili (p. 54); alcuni fazzoletti da testa e, in una
carta velina, insieme a qualche
pietrina colorata (p. 55); alcune
nocelle, semi abbrustoliti e… nient’altro (ibidem);
essi si scambiarono alcune parolette
(p. 59); Così, in certo modo, io ero
nel giusto (p. 60); E decise che l’indomani, a qualsiasi costo, avrebbe chiesto al marchese di lasciargli portare
la servetta a Milano, dove qualche
istituto religioso avrebbe preso cura della sua rieducazione (p. 65); suonò a
un certo momento la voce bassa e pur
alterata d’Hipolito (p. 104); dopo aver sostato alquanto in sua contemplazione
[…] e dopo aver fantasticato alquanto
sulla camerina piena di tappeti (p. 105); l’unica cosa da fare, in taluni frangenti (p. 112).
Morfologie dell'Iguana. Anna Maria Ortese tra letteratura
e cinema, a cura di Margherita Ganeri e Bruno Roberti,
2012.
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Anche
i dimostrativi mirano a creare un binario linguistico all’interno del quale può
disporsi il pensiero non ancora compiuto, evocando così la forza immaginativa del
lettore. Da un lato, quindi, tale pratica disarticola la deissi, dall’altro, il
frequente richiamo anaforico e cataforico operato da aggettivi e pronomi
dimostrativi e dalle particelle avverbiali rafforza la coesione tra le varie
sezioni del periodo, nonché la relazione fra le idee e spesso comporta, con
essa, una nuova intuizione delle cose:
il Daddo si recò a Siviglia in cerca di quel gioielliere, che l’azzurro si
sarebbe tagliato a fette, tanto era azzurro. E vi era una calma, un silenzio, un tal piacere di vivere! […] e il Daddo si consolò girovagando per quelle bianche stradine, e comprando
inutili cianfrusaglie, ma che tali
non sarebbero parse alla contessa madre […] e fra queste era una sciarpa di seta bianca […]. (p. 21)
Allora, quegli
occhi, tornati piccini e seri, gli fecero una impressione di gravità, come se
la follia del marchese non avesse di molto risparmiato quella tenera mente. […] Non sapeva neppure lui in che modo lo
guardava, ma certo vi era in quegli occhietti una severità e una lacera
interrogazione, al di là del discorso, che si avviò in questo modo […]. (p. 78)
O forse egli, sempre per i risultati di quel colloquio, che lo avevano fatto
ormai sicuro di se stesso, era in quello
stato di forza che favorisce non diremo disprezzo, ma certo noncuranza di quella opinione che altri può farsi del
nostro comportamento. Così, il suo atteggiamento verso il lombardo, poc’anzi
amico dell’anima, era improntato in quel momento
(come per un rapido riscaldarsi di detta forza, e una specie di sollevamento
del suo intimo) a una superficialità indicibile, che non celava una netta
impazienza. (p. 150)
Nell’ultimo
frammento citato l’indicibilità della
realtà e il suo retroterra spirituale sono accentuati dalla presenza della
parentesi (altro elemento fortemente caratterizzante la prosa della Ortese),
specialmente adoperata come luogo per una riflessione a margine dell’idea
principale che, di fatto, crea una relazione tra l’autore e il lettore, tra due
personaggi o tra due episodi:
Allora, di certi forti sapori (che poi non sono affatto forti, anzi banalissimi), va a caccia e
darebbe la vita per quelli (p. 15); Avevano comprato molto, finora; e
intendevano (cioè, era la contessa madre
che intendeva) comprare ancora (p. 16); Tutto il cielo di Ocaña stava diventando
rosso (senza, per questo, perdere certe
bianche e opaline trasparenze), come per una seconda levata della luna. (p.
71); Erano (vedi un po’, Lettore, come il
segreto delle cose è spesso assai più modesto di quanto l’infantile
immaginazione dell’Universo intenderebbe, per non so quali fini, dimostrare),
erano niente più che una compitissima e molto dabbene famigliole del ceto medio
mondiale (p. 89); Ketty (così si chiamava
la domestica dei Hopins) (p. 138); Così non meravigliarti, Lettore, se la malattia
(così possiamo chiamare il pensiero)
[…] è esplosa nei modi tremendi che vedi (p. 161).
La funzione pedagogica e didattica dei periodi posti tra
parentesi (e, in genere, delle frasi incidentali) crea un secondo piano del
discorso (come su un piano diverso del discorso si pongono anche le lettere
disseminate lungo la narrazione di Alonso
e i visionari): è questo il luogo privilegiato della letteratura ortesiana.
Essa comporta il distanziamento di chi narra dall’io che vive, ma allo stesso
tempo una temporanea separazione tra sfera oggettiva e sfera immaginaria. A
riavvicinare i due ambiti – assecondando così quel movimento ininterrotto
praticato dalla Ortese tra le varianti del reale – provvedono alcune serie
incessanti di avverbi di dubbio (quali quasi,
forse, probabilmente) o di locuzioni indefinite (un che di, non so che, per così dire, una specie di). Nei due periodi che seguono, mediante la
ripetizione di un medesimo avverbio, di un frammento sintattico o di una
congiunzione che regge una comparativa ipotetica, si crea quell’effetto
caleidoscopico tanto caro al modo di narrare della scrittrice:[21]
prendendo nella sua quella piccola
sudicia mano […] pensò ancora che, forse,
non era una menzogna, quanto una immagine; legava quella tetraggine, quello stupore,
quel rapido «altre cose», e gli parve di capire che ciò fosse affetto, umanità,
espressioni di graziosa simpatia, che probabilmente,
per qualche grave fatto o mutamento intervenuto nella vita di quegli esseri, o forse nessun mutamento, ma solo indifferenza,
come accade nella vita, erano cessate. Dopo di ciò, forse per compensare quel distacco e quella sofferenza con valori
di ordine materiale, essi avevano deciso di pagarla. (p. 80)
Il Daddo […] senza quasi rendersene conto […] andava ritrovando in sé la primitiva e quasi cupa dolcezza del vero lombardo
[…] una severa e quasi stupida
semplicità del cuore […] e dentro gli si muoveva di nuovo quella passione di
padre e figlio devoto ch’egli portava a tutto, quasi ciascuna creatura fosse stata da sempre affidata alle sue
forze, e su di essa egli si dovesse inchinare per proteggere, vegliare. (p.
116)
Il senso ulteriore, quella certezza indefinibile tanto amata
dalla Ortese, viene spesso cercata seguendo una sorta di isoglossa della
deformazione che sfrutta un paradossale e perseverante rovesciamento dei
principi di definizione deittica, come nel passo che anticipa e prepara
l’ultimo citato:
Il Daddo, mentre queste parole ora ascoltava, ora no, distratto ora
dalla pietà di quei biondi capelli e quel morto viso, ora dalla nuvolosa dolcezza del cielo, ora […] da una figurina che vedeva arrancare in barchetta verso la
spiaggia, ed era don Fidenzio. (Ibidem)
La presenza molto marcata di avverbi di luogo (dove, là), di tempo (allora, già,
ormai, poi), di modo (così,
come), di quantità (in più) – soltanto per citare quelli
rintracciabili all’interno del primo capitolo, ma usati estesamente lungo tutto
il romanzo e, come si è appena visto, nell’incipit del quattordicesimo capitolo
– consente di determinare eufemisticamente (o, il che è lo stesso,
negativamente) le coordinate di una realtà disarticolata, che sfugge da tutte
le parti. Anche la sintassi ortesiana attraversa, per così dire, un suo stadio
dello specchio che limita le tentazioni centrifughe che minacciano la stabilità
del testo: «le storie – dice Jimmy Op all’inizio di Alonso e i visionari – sono piene di mutamenti; si comincia con lui, si finisce con lei o loro, o il
contrario: con nessuno, con tutti».[22] Ciò
può avvenire perché l’autrice ha assimilato globalmente la struttura dell’immagine-iguana e, prendendo a mano a
mano coscienza della sua unità, ha potuto risolvere l’illusione insita in essa:
e l’ha risolta evitando che la favola, come anche in altri romanzi, quali il Cardillo addolorato e Alonso, curvasse verso l’evasione lirica
o il sogno.[23] La Ortese ha compreso gli
sviluppi virtuali della conoscenza del reale, ma non imitando la forma della
realtà in maniera parziale o a tastoni; bensì ricostruendo, frammento per
frammento, la sua identificazione con una seconda natura – al limite tra
l’animale e il vero essere umano – e, su questa («come se il senso delle cose
fosse un altro», p. 16), ponendo le basi per instaurare la sua prospettiva. La
rivendicazione di tale rottura si rivelerà distopica e, lo si è detto, incline
(fino alle ultime prove narrative) ad approdi nichilistici («troppo al di sotto
vedo il mondo, al di sotto di una qualsiasi speranza di mutamento e di
direzione»);[24] tuttavia, muovendo dalla
considerazione del nulla e nella piena consapevolezza dello stato del reale e
della possibilità sempre più flebile di potersene liberare, la scrittrice pone
nella poesia, in un modo mai scontato di rapportarsi al proprio corpo e alla
realtà, in un nuovo stile di vita («l’essere davvero reali»)[25]
l’alternativa globale alla società capitalistica che, ancor più in Italia, non
rispetta nulla di ciò che non comprende. La determinazione antiutopica,
insomma, non fa del romanzo un divertimento, un esercizio letterario torbido,
sensuale e fine a se stesso: l’intenzione della Ortese nel momento in cui
scrive L’Iguana è certamente
antifrastica, se non negativa; ma insieme a «un invincibile disgusto» di fronte
agli orrori di questo mondo, lo scrittore-animale[26] mantiene
un certo interesse per la sua verità, per la sua «innominabile realtà» (p.
138), che tralasciando le strade comode e passando attraverso le petraie del
mondo, tenta il «superamento delle antiche concezioni di natura e spirito, di
immaginario e di reale» (p. 60) e giunge nell’esilio di chi vuole scrivere il
reale; in quella dimora provvisoria,
interna ed esterna simultaneamente e frutto di una resistenza irritata, si
ritrova l’uomo che forgia il suo mondo e che non è toccato dalla realtà intesa
come mera riduzione simbolica. Come sembra segnalare il finale del romanzo, il
letterato esercita un dubbio ma, pressato dalla realtà, non sospende il
giudizio: lo pratica con la sua immaginazione, selvaticamente protratto oltre
il buon senso, oltre un uso domestico
del mondo, oltre quello che in Alonso
viene definito «un concimaio del tempo»,[27] aprendosi a una comprensione che non è
quella perfetta e rigida dello specchio, né quella totale ma svuotata e
immobile del mito: è quella etica e storica, un po’ svalutata e fuori moda, di
chi la letteratura, come la vita, la fa e
la rifà continuamente e riconcilia,
con il suo spirito intimo e naturale, tanto il reale con gli uomini, quanto l’oggetto
col sapere.
[1] Verso
di Georg Trakl, autore peraltro caro alla Ortese, citato in T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa [1951], trad. di R.
Solmi, Torino, Einaudi, 2006, p. 74.
[2]
Riporterò la semplice indicazione del numero di pagina nel rimandare
all’edizione dell’Iguana cui si fa
riferimento (Milano, Adelphi, 2003). I corsivi sono sempre miei.
[3] Per
una interessante e suggestiva ricostruzione delle virtù dello specchio nella
storia si veda il noto J. Baltrušaitis, Lo specchio. Rivelazioni, inganni e science-fiction [1981], trad.
di C. Pizzorusso, Milano, Adelphi, 2007.
[4] Sul
modo in cui l’esasperato processo correttivo praticato dall’autrice partecipa
anche alla genesi del romanzo si veda A. Baldi,
Nota al testo, in A.M. Ortese, Romanzi, volume II, Milano, Adelphi, 2005, pp. 895-1017 .
[5] A.M. Ortese, Alonso e i visionari, in ivi, p. 881.
[6] Cfr.
ivi, pp. 758, 870 e 880.
[7] Ivi,
p. 744.
[8] Sarà
la stessa Ortese a fissare la parentela tra i due personaggi in uno degli
appunti di commento ad Alonso, citato
in F. Secchieri, Nota al testo, in A.M. Ortese, Romanzi cit., p. 1125.
[9] A.M. Ortese, Alonso e i visionari cit., p. 689.
[10] Il
riferimento obbligato è a J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io, in Id., Scritti [1966], a cura di G.B. Contri,
volume primo, Torino, Einaudi, 2006, pp. 87-94. Ma, nello stesso volume, si
veda anche Aldilà del «principio di
realtà», pp. 67-86.
[11] Cfr.
U. Eco, Sugli specchi, in Id., Sugli specchi e altri saggi [1985],
Milano, Bompiani, 1987, in
particolare p. 15.
[12] Cfr.
la lettera di Anna Maria Ortese a Henry Martin del 5 luglio 1996 , riprodotta in F. Secchieri, Nota al testo, in A.M. Ortese, Romanzi cit., p. 1142.
[13] A
tal proposito, si veda R. Barthes,
Il mito, oggi, in Id., Miti
d’oggi [1957], trad. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 189-238.
[14] Sul
contesto espressivo proprio dell’eufemismo e dell’antifrasi e, in generale, del
regime notturno dell’immagine, cfr. G. Durand,
Le strutture antropologiche
dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale [1963], trad di
E. Catalano, Bari, Dedalo, 1984,
in particolare pp. 201-236. Cfr. anche A.M. Ortese, Alonso e i visionari, in ivi, p. 863.
[15]
Sulla dimensione politica della pittura di Van Gogh si veda G.C. Argan, Una pittura vera fino
all’assurdo, in Van Gogh, Milano,
Rizzoli, 2003, pp. 7-14; sul regime della sua pittura G. Durand, Le strutture antropologiche cit., pp. 269-279.
[16] Si
veda, in questo stesso volume, l’intervento di Margherita Ganeri.
[17] Cfr.
G. Durand, Le strutture antropologiche cit., pp. 224-227. La sensibilità della
Ortese al colore della luce è emersa spesso nelle sue dichiarazioni; è nota
quella rilasciata nel 1977 a
Dario Bellezza e inclusa nell’edizione citata dell’Iguana (cfr. D. Bellezza,
Intervista all’autrice, pp. 185-195).
[18] Cfr.
G. Durand, Le strutture antropologiche cit., p. 219.
[19] Cfr.
gli appunti di commento ad Alonso
della stessa autrice e riportati in F.
Secchieri, Nota al testo cit.,
p. 1126.
[20] A.M.
Ortese, Alonso e i visionari cit., p. 831; i corsivi sono miei.
[21]
Sulla funzione e il tono di alcuni elementi sintattici e linguistici frequenti
nella prosa ortesiana dell’Iguana si
veda L. Spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura
francese moderna [1959], Torino, Einaudi, 1977, passim.
[22] A.M.
Ortese, Alonso e i visionari cit., pp. 646-647; i corsivi sono nel testo.
[23] A
tal proposito, cfr. L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna
Maria Ortese, Milano, Mondadori, 2002, p. 444 e passim.
[24] A.M.
Ortese, Alonso e i visionari cit., p. 840.
[25] Ivi,
p. 839.
[26]
L’espressione è tratta da P. Citati,
La principessa dell’isola,
postfazione all’edizione citata dell’Iguana,
p. 199.