Tuttavia. Dialogo
(quasi) a bocca chiusa
Dicono i grammatici normativi che i verbi sono di due
tipi: transitivi e intransitivi.
L’esperienza dice diversamente: che quasi tutti i
verbi (e la verbalità) sono intransitivi.
Tali, ad esempio, parlare, insegnare, educare,
scrivere & co.
Esistono anche i verbi transitivi, certamente: ma
trattasi di eccezioni. Che, in quanto tali, confermano la regola. Tali, ad esempio,
tacere, ricordare, ascoltare-realmente, inventariare, analizzare, interpretare,
pazientare certosinamente e attendere. Non Godot, ma il sottrarsi del senso
delle vicende.
Perché queste sono in quanto sono, ma essendo,
immediatamente si rovesciano nel dicibile, che è interfaccia dell’indicibile.
Intanto, veniamo a noi. Sono legittimato, nei
confronti di antigruppo, a parlare di noi, come sottolineavano gli
espressionisti tedeschi criticamente attestati sul versante del wir sind – wir waren. Ma posso dire di
noi pressoché come un testimone auricolare in materia di quanto egli abbia
potuto sentire o gli sia stato fatto sentire.
Comunque, anche la condizione di testimone non è
casuale, come sostengono gli psicosomatici. Uno non si trova mai senza un suo
consenso profondo in un luogo, in/presso un accadimento.
Perciò vengo ai fatti. Che sono di collusione ideale e
un po’ anche materiale: partim et passim.
Non ricordo più come ci conoscemmo. Se ci fu uno che
ci presentasse, perché è nel codice antropologico che ci sia sempre qualcuno
che faccia da anello d’interpretazione e da garante. O se fu lui una sera a chiamarmi
da Palermo e ad avviare una di quelle filippiche che non finiscono mai, ma
proprio non finiscono mai. La notte avanzava e lui continuava, fieramente, sempre
più incalzantemente.
Progressivamente la telefonata mi intrigava, mi
strappava il consenso. La voce dell’interlocutore, ovvero dell’oratore si
identificava a mano a mano con quella di un gruppo o, meglio, di una città. Era
Palermo che parlava in un italiano dalle forti inflessioni palermitane, ma con sue ragioni vigorose, con icasticità etiche che
venivano disoccultando mistificazioni e disvalori, che chi viveva a Napoli, in
maniera partecipata come me, non poteva non capire.
Non solo Palermo s’era messa a parlare a Napoli, in
uno sfogo più che plausibile fra due capitali del malessere e delle
contraddizioni nazionali, ma a Palermo un po’ ci abitavo.
Lì ho avuto l’editore a me più caro, nel cui catalogo
egli mi ha consentito generosamente di occupare per decenni uno spazio di ampio
respiro. Per sovrappiù, per chi come noi di quel tempo sapeva che la
rivoluzione era all’angolo e che era ineludibile entrare nel cambiamento sull’onda
delle insopprimibili attese del Sud, non poteva non saldarsi una solidarietà
intellettuale meridionalmente magmatica.
Chi era questo impetuoso e coinvolgente animatore di
passione? Chi poteva essere, se non il poeta di Antigruppo impegnato
programmaticamente nell’antagonismo e totalmente vocato alla mimesi dell’antitesi
che assume il vissuto e la microstoria a esemplificazione delle storture
universali?
Era Pietro Terminelli in persona.
In quel periodo, era la fine degli anni Sessanta, per
parte mia mangiavo anti e letteratura, anti e politica, anti e giornalismo,
anti e scuola. Davo consenso senza riserve ad “Ant ed” di Sebastiano Vassalli. E
quando i carabinieri andarono a casa sua a fare accertamenti su quel foglio, io
gli scrissi prontamente che ero disposto a trasferire a Napoli l’iniziativa.
Nel campo delle ricerche letterarie stavo lavorando alla prima monografia, che
vide la luce presso Mursia a Milano nel 1973, dedicata a Alberto Savinio, un
geniale eccitatore del nuovo sul filo di uno straniante umorismo e di un’inquietudine
scarnificante e spietata verso le certezze di comodo.
Poco tempo dopo quella prima interminabile telefonata,
Pietro venne a trovarmi a Napoli e fu ospite per un giorno a casa mia. I miei figli
a tavola si divertirono immensamente ad ascoltarlo e se ne impressero nella
memoria gesti, gutturalità, impasti fonici e per anni li riprodussero in
enfatica teatralità. Ancora adesso, il più piccolo, che ha un forte senso della
plasticità ed è cresciuto, se ne ricorda e induce un sorriso complice nella
madre. È il segno che era un personaggio scenograficamente, cioè anche scenograficamente,
non insignificante.
Pietro mi aveva portato in dono fogli, tracciati,
antologie, fascicoli pubblicati nella rivista. Mi parlò di tanti amici e
nemici. Io cercavo di appuntarmi mentalmente quelli che ricorrevano più
frequentemente nel bene e nel male.
Cercavo anche di farmi un’idea precisa della
situazione. Capii, così che il discorso si alimentava di fortissime tensioni. Notai
con piacere che tutti gli attori erano impegnati allo spasimo a marcare la
propria identità e a farla riconoscere anche fuori dell’isola, a Firenze, a
Napoli, altrove. Fuori dell’isola, però, si muovevano e allacciavano cinghie di
trasmissioni di relazionalità e di circolazione di idee essenzialmente due
Dioscuri. Uno era naturalmente Pietro in persona. L’altro era Ignazio Apolloni.
Michele Perriera Il romboide Prova d'Autore Catania 2007 |
Quando volli conoscere più in dettaglio i rapporti che
erano stati stabiliti con quelli della “scuola di Palermo” (Di Marco, Perriera,
Testa), Terminelli reagì come a una provocazione. Nell’ottobre del 1963 dovevo
essere anch’io a Palermo nella conta e nell’unzione dei catecumeni.
Conservo ancora una cartolina d’invito di Luciano
Anceschi: “Ci vediamo in ottobre a Palermo”. Dove, poi, non andai. Ma con
Anceschi non cessarono i rapporti. E parlammo anche dei siciliani. Per Pietro
fu come se avessi nominato un gruppo satanico o giù di lì. Esplose in
scongiuri, formule apotropaiche, denunzie, denunzie, denunzie. Nel positivo e
nel propositivo, intanto, mi veniva significando che la letteratura non è
finzione, non compromissione, non calcolo, ma solo, se è viva e autentica,
equazione e simbiosi di incandescente eticità e di espressione di antitesi. Si
veniva anche appoggiando ad argomenti ovvero a tesi classiche del materialismo
dialettico, ma più lo confortava a procedere nella tensione ideale l’esempio
dei poeti dei nostri giorni.
Quando si imbarcò sul traghetto per Palermo in serata,
Pietro si portava soddisfatto in Sicilia (nell’ideale carniere) il mio
consenso, la mia simpatia, dei miei versi da pubblicare e che mi pubblicò sulla
rivista.
Seguirono scambi di lettere, telefonate, altre visite
di Pietro a casa mia. L’ultima volta venne a trovarmi in compagnia di Ciro
Vitiello, quando si stava per lanciare “L’involucro”.
La cover de "L'involucro" n.3: la redazione era composta, oltre che da Ciro Vitiello e Pietro Terminelli, anche da Domenico Cara e V.S.Gaudio |
Intanto, si era venuto stringendo un dialogo anche con
Ignazio Apolloni, ma più cool, più
squisitamente letterario. Ignazio aveva cominciato a inviarmi in regalo i suoi libri-oggetto,
sketch-poesie e provocazioni di sinestesie del linguaggio iconico e di quello
verbale. Ne seguivo lo svolgimento, osservando concordanze futuriste e audaci
contattazioni del fumetto e del cinema.
Ma improvvisamente un giorno mi scrisse una
letteraccia, lunga, articolata, con tutti gli spazi bianchi occupati. Aveva
acquistato e letto un mio libro, Novecento
e tradizione, dove io cercavo di analizzare il sorgere e l’affermarsi della
tradizione del nuovo nella poesia italiana del XX secolo. Era la seconda edizione
di tracciati di un ciclo di mie conferenze tenute a metà degli anni Sessanta all’Istituto
Italiano di Cultura di Tripoli.
Ignazio mi accusava di integrazione nel sistema e mi
disconosceva come amico e compagno di strada, di svendita dell’ “anti”. Per lui
passato presente e futuro andavano giudicati unicamente secondo la legge della
nostra irriducibilità all’ordine costituito, che era l’irriducibilità tout
court.
Gli risposi con delle precisazioni e distinzioni storiche
e filologiche. Ma credo che la risposta non gli facesse né caldo né freddo perché
non me ne dette riscontro. A lui bastava aver segnalato all’amico la caduta di
impegno ed essersi sfogato. Le sue incazzature sono eventi: hanno una nicchia
in quel momento e in quello spazio, poi vengono affidati a se stessi. “Chi vivrà
vedrà”, dice loro Apolloni e va appresso a cercare altre nicchie da riempire
con la sua insopprimibile tensione creativa e con la sua follia.
Sostiene Pirandello che dentro ognuno batte una corda
pazza. Io credo che dentro Apolloni batta più di una corda pazza. Così, l’originalità
è assicurata.
Originale, Apolloni è originalissimo. Non sto a
tracciarne un profilo, per rispetto della natura della nota. Ma qualche glossa
almeno va apposta sulla presente stagione.
La quale continua a mantenere fede, molto generosamente,
alla poetica dell’”anti” sottoscritta coralmente nel gruppo negli anni Sessanta.
L’indocilità non solo all’aulico, al curiale, all’accademico,
ma anche al confortevole e al gradevole che tanto spesso si coagula e gratifica
autori e fruitori della comunicazione media e perfino di quella bassa e
degradata, dove non manca chi si rifugi per dileggio delle misure e convenzioni
alte, produce sciami sismici di annichilimento di tentativi e tentazioni di
addomesticamento alla cosa immonda che è il sistema. Il non senso si compiace
di appostarsi fin dall’inizio per poi fare sberleffi al lettore nel corso dei
lavori o alla fine degli stessi, ridendo della sua ingenuità a non essersene
accorto da subito. Il divertimento, di etimo palazzeschiano, che pertanto
rivendica il diritto sia di scollegarsi aprioristicamente da implicazioni
ideologiche e moralistche, sia di aggirarsi in allegria intorno a ogni spunto o
pretesto ludico, scompiglia e sconvolge le trame supposte o supponibili delle
vicende.
Questo è oggi come ieri, anzi forse più di ieri,
perché Apolloni, col passar del tempo, rende ancor più lieve e giocosa la
disponibilità all’avventura ideale (e forse anche esistenziale). Perché
appartiene alla razza di quelli che nascono non per restare giovani, ma per
essere ogni momento, in ogni prova, giovani sempre.
Ma il gioco, oggi, è per lo scrittore molto più
sottile di prima e i veleni che egli dissemina nel suo fare sono molto più insidiosi
e tenaci. La strategia stessa della poiesis
è più astuta, potendosi Apolloni giovare del dialogo che viene intrattenendo
con dei volponi della letteratura come Gramigna e Finzi.
Il segno più tangibile degli acquisti coscienziali sul
versante della mimesi è nell’opzione, che non possiamo dire definitiva, perché
niente è definitivo nella storia e tanto meno per il nostro Ignazio, per la
narrativa, che è sempre acuminatamente “anti”, ma che in questi ultimi anni è
sempre più pervasa come attività fondamentale e fondamentalmente verbale, anche
se sollecitata da tecniche verbali dei nuovi media, dal cartoon alla tv e al
computer. Sembra proprio che Apolloni finalmente si sia deciso a prendere
cittadinanza, ma anche residenza, nel romanzo, nella novella, nella favola.
Ma vediamo quali scherzi perversi egli continua a fare
a danno (ma anche a vantaggio) delle istituzioni letterarie.
Partiamo dalla favola, che a un siciliano riesce spontanea,
perché “discende per li rami”.
La predisposizione sorgiva alla fabulazione e alla
favolistica non cerca, in Apolloni, contaminazioni con l’esotico e la
sensualità mediterranea e saracena, come ad esempio in Bonaviri (anche lui
siciliano, non a caso). L’autore non si lascia implicare né antropologicamente,
né sociologicamente, né subliminarmente.
Egli è deciso a servirsene, perché è venuto scoprendo
che in tale inclinazione possiede una risorsa decisiva. Ma stabilisce di
servirsene senza compiacimenti, al di là degli schemi, perché non può farne a meno.
Modernamente, cioè in senso innovatore e sperimentale
insieme, va a saggiare le possibilità della favola prima nell’avvicinamento
delle punte con il fumetto alla Charles Schulz, alla Johnny Hart (l’autore di
B.C.), alla moda di Al Capp.
Successivamente, dopo e durante frequentazioni delle “anime”
giapponesi e di Tiziano Sclavi, rilancia la favola e il racconto per i giovanissimi
con provocazioni nichilistiche.
Il ricorso alla favola è strumentale apertamente alla
registrazione della morte della stessa.
Si apra a caso una pagina di Capellino (1991), la prova più impegnativa e significativa di Apolloni
nella narrativa per ragazzi, e si troveranno a iosa periodi lunghi, addensarsi
di materiale semantico non tarato sulle capacita d’intelligenza (e di
suggestione) di chi è in fase di sviluppo, rinvii a esperienze letterarie e artistiche
sofisticate della modernità, riporti linguistici da milieu sociali e culturali
raffinati. In pratica la favola c’e ma solo promessa, allusa, appena suggerita.
Essa si cerca come fruitore non il bambino o il ragazzo vero, ma l’adulto
mentalmente maturo e vaccinato ai mali della vita e agli scherzi del linguaggio,
in cui tuttavia abiti l’albale innocenza degli inizi.
Ignazio Apolloni Capellino introduzione di Stefano Lanuzza Edizioni Intergruppo-Singlossie Palermo 1991 |
Questo lettore in Capellino
troverà deliziose occasioni di sognare a occhi aperti e riscoprire il piacere
dell’invenzione e dell’intrigo. Analogo pubblico cercava Mozart per le sue favole
settecentesche o Ciajkovskij con Il lago
dei Cigni e lo Schiaccianoci.
Ironia, svuotamento dall’interno di ogni contenutismo
narrativo, trasgressione, giuoco crudele al massacro delle convenzioni, ma
intrisi di brio creativo, animano egualmente le opere non favolistiche.
Gilberte (1994), ad esempio, un libro di 563 pagine, è un
romanzo anti-inter-meta. Come acutamente osserva Gilberto Finzi, in esso, “come
in una lezione del grande Lacan, il testo sa molto di più di quanto non sappia
il suo autore”. La complessa, intrigata, sfaldata vicenda rappresentata implode
in mimesi del caos che incombe e circola non solo sul mondo contemporaneo, ma
sul mondo in sé e si fenomenizza nell’avvolgente, gratuita narratività, anonima
eterna, dettata da una “bouche d’ombre”.
Ignazio Apolloni GILBERTE Edizioni Novecento Palermo 1994 |
Ormai, l’accettazione di trovarsi e guardarsi nella
letteratura come specchio della realtà e intersezione della stessa, è piena. La
sottoscrizione è in Racconti patafisici e
pantagruelici (2000). Qui tutto il gusto dello scherzo e dello scherno è
avvolto nella consapevolezza che in questione non è solo il fantasma
dell’oggetto, ma il destino stesso di chi parla insieme con quello del corpo
della parola.
È un punto alto toccato da Apolloni. Forse il più alto
e persuasivo. Ma un punto anche di approdo dell’agonismo di
Antigruppo-Intergruppo.
Ugo Piscopo
Napoli, novembre 2001
L'involucro n.3 : seconda di copertina
►Pietro Terminelli ◊ Il dissenso della letteratura