INDICE DEL NUMERO
MONOGRAFICO FERMENTI,
giugno 1978
SINTOMATOLOGIA DEL
GIOVANE MORBO
·
LAVORO DELLA
SINTOMATOLOGIA IN SCORRIMENTO:
L. Angiuli, R. Cannarsa,
A. Contò, L. Corteggiani,
D. De Amicis, F. Ermini,
F. Ferreri, V. S. Gaudio,
C. Giovanardi, R.
Linzalone,
M. Moroni, S. Petrignani,
G.
Pavanello, C. Provenzano,
M. Quesada, G. Savio,
N.
Scutari, C. Vio,
L. Vitiello
·
SCHEDATURA POETICA
·
LA MAPPA IMPOETICA di 11 poeticocritici:
A. Cappi, D. Cara,
P. Cimatti,
A. Lolini, L. Mancino,
R. Minore, E. Pecora, L. Pignotti,
V. Riviello, G. Toti,
F. Verdi
|
PIETRO TERMINELLI
Sul "Giovane
morbo"
Caro Carratoni,
l'ospitalità concessa ai miei testi su " Fermenti " nel fascicolo di
gennaio-marzo '77 ha dato un avvio di testi, fascicolo su fascicolo, di altri
autori della militanza letteraria più moderna da Toti a Verdi, da Ermini a Cara
(e non importa l'età anagrafica, lo stato di famiglia, il certificato di
matrimonio o altro sacramento stipulato a funzione civile, letteraria e
militare). Proprio il Cara sull'ultimo n. 6 riportava: " L'uomo che scrive
ha l'età stessa della poesia scritta, e cioè: ci sono poeti di una certa età
che scrivono ancora versi post-ermetici e post-realisti, e altri che hanno
sviluppato situazioni attive e sperimentali e innegabili, mentre esistono
" giovani " che ripetono stancamente Ungaretti, e Saba (e giù da lì),
e sono privi di una pur minima possibilità di esibire i documenti attendibili a
una " tradizione del nuovo ".
Senza volere ricercare le cause lontane o prossime del fenomeno riportato, ci stupisce questo fascicolo dedicato a una " sintomatologia del giovane morbo " che morbo di Koch non è, né di illustre clinico specializzato di una certa Roma. Come recentemente diceva lo speaker in TV per il funerale di Paolo VI: " Tutta Roma è a piazza S. Pietro ", e da ciò si può dedurre la grandezza dell'urbe immortale, papale o democristiana o del PCI, che se ne frega con a capo il sindaco Argan del " sacco di Roma ", avvenuto nelle dominazioni incontrastate trascorse per opera della politica del fiore candido all'occhiello. Ma è utile sottolineare che questa Roma è quella possibile di Gianni Toti con i suoi beni e mali sperimentalisti o della revisione del partito rivoluzionario in partito delle riforme e più recentemente della stasi; e può essere quella del critico sommo (tiro a sorteggio), Walter Pedullà o di altro illustre benemerito come Giuliano Manacorda che è rimasto a mungere le sue mucche all'indietro, vecchiotte degli anni '50, con spavalderia contrabbandando per epifania qualsiasi data, esclusa quella del 6 gennaio, accalorandosi nelle improvvisazioni, delle parentele per svolgere appendici di ingrassamento alla sua " Storia " della letteratura, personale e fuori della Storia come tutte le mistificazioni ai manufatti tragicamente inattuali in un periodo di standardizzazione dei piani tecnologici della politica culturale-editoriale e super-capitalista. L'inizio della introduzione su " Fermenti " detta da Vitaldo Conte si snoda come atto funebre e con quei rintocchi risultati di obitorio che paiono già inizi e conclusioni. Riporto dal discorso d'apertura quanto segue: " Oggi il giovane morbo è esploso nella valenza epidemica inserendosi come sintomo nuovo nella sintomatologia dei generi morbosi. Da qualche anno è entrato in una fase cruciale; per la introduzione nella normativa funzionale o nello scarico dei padri-sistemi letterari che non possono pompare la produzione e/o pubblicità per liberarsene poi al concilio della Reazione ". A parte l'assenza di una somma chiarezza " nello scarico dei padri-sistemi letterari " (di cui non si capisce con " sistemi " se siano quelli strettamente semantici della grande editoria e del grosso capitale), vi è sottesa una giustificazione di fronte al fenomeno intravisto negativamente (" che non possono pompare ") della tanta produzione letteraria. E allora si chiede perché proporre del postnovismo proliferante " Augeri ", tirato su dalla collana di poeti " casalinghi-internazionali " Lacaita e per merito ovviamente di un responsabile, uno dei due " fratelli Bandiera " sopravvissuto e longevo, un certo Leonardo Mancino, e non altri più originali e meno in erba? perché le condizioni a livello medio, involutivo, scarso, esistenziale rispetto la produzione migliore sessantottesca non privilegiata dai restauratori, Walter Pedullà, Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli? perché il recente volume della " poesia innamorata ", versificazione disamorata della crisi del linguaggio parlato, pubblicata da Feltrinelli, in cui circola una delle ragioni più arretrate e sospette, soprattutto nella constatazione critica, dalla dimensione commisurata e articolantesi nella " situazione crepuscolare "? perché?
Intanto i poeti da salvare (o conservare nel fascicolo) presentati e non presentati (con quel discorso generico di anagrafe, con data di nascita e raramente con data di morte) non sono né buoni né cattivi: sono un po' il risultato di tanti gusti, di ammucchiate totalizzabili (non totilisti), classificabili nella via di mezzo tra un lato del marciapiede all'altro, nella carreggiata di campagna, nella stradella privata del "privato ", tra aratro e proprio orticello, reso pubblico da decreto prefettizio e ordine di esproprio. Uscendo un po' dalle metafore, dal linguaggio divagante e impinguato, la poesia è una produzione per la collettività con uno o più responsabili dal gesto individuale in cui si argomentano, strati su strati, remore linguistiche e atti processuali di un progressivo e progressismo societario: certamente nel linguaggio interagiscono funzioni primarie e secondarie, nelle parti più accostabili e in lontananza dai sintagmi. Un riscontro è molto difficile, non volendo attuare quella condizione di approfondimento necessario come atto scientifico di ricerca e di verifica del testo poetico.
Comunque a contatto dei testi salta a prima vista " Virtù salutari delle erbe " di Lino Angiuli per un tentativo di discorso fuori del meccanicismo parolaio di moda, moda dalla quale scorrono alcuni esempi tassonomici e all'estremo tutti gli " allora " di A. Contò, che non si contano come i " disse " di Sanguineti, d'altronde di derivazione o transloco sospetto, per es. i testi dialogici e filosofici di Platone; o quella in perfezione meno attesa di V.S. Gaudio tratta da una inconfondibile stura di psicanalisi, riflessa ad " oculum ". " Le mappe impoetiche ", di cui abbiamo riportato qualche indicazione in positivo (D. Cara) e altra in negativo (L. Mancino), è un po' inconsueta per i vuoti degli autori preferiti a un questionario di stretta misura; pare altresì ad amici fidatissimi, non guerrafondai a torto o ragione. L'interrogativo che si alza è poi se le scelte sono regolarissime su poeti che si attendono, intendono per affinità linguistica, ideologia e poetica o viceversa alla struttura va la preferenza saggiata o il varo di una amicizia conforme e/o difforme. Il dubbio è grosso e consente una traiettoria lungo un arco di attendibilità, generando qualche remora riflessa, simpatia e antipatia, senza documentazione di esagerazione tassonomica.
Qualche uso, tuttavia, come il caso di A. Cappi, che ricorre al solito viaggio remotamente omerico; più accostato alle sponde della presenza, della pressanza del presente per via e trambusti, le spume tipografiche del " testo ", che come tale " nel viaggio " s'incaglia per ben due volte, preso in lettura andò a finire nella spazzatura e tornò carico di doni endogeni: la terza volta accoppiato sparì con l'intero carico emotivo di imbrattamento della pattumiera. Ma noi sappiamo che spesso i criteri dettati dai poeti, un po' critici e teorici (con il ricorso, rincorsa nella lettura di Lacan o Derrida e un pizzico di aglio) sono quelli della poesia mancata, non riuscita tramite la conversazione dei versi e il condimento editoriale, naturalmente o nella presenza e nella traccia ", nel tracciato dei ghiribizzi delle pretese personali e (im)-poetiche. Comunque i criteri scriteriati o no ritornano nella teoretica, nella incarnazione della critica letteraria leggera e sono poesia se non ottima mediocre o addirittura scadente.
Scrive il Cappi in " Fermenti " n. 6: " II territorio, che è quello dello sperimentalismo, è agitato da intense partecipazioni all'interrogare il significante (e fin qui ci siamo con l'interrogatorio non poliziesco (1)) e da un sovraccarico semantico del quale non sempre sono percepibili le potenze (e qui non ci siamo (2)).
Che lo sperimentalismo nel suo eccessivo sopralluogo a funzione linguistica (formalismo o formalizzazione) abbia di bisogno di un omologizzante significante (il quale quest'ultimo sarebbe la traduzione dello stesso sperimentalismo linguistico, non della sperimentazione linguistica che è un fatto naturale e normale e cioè lo sperimentalismo richiede una adeguata portata e intensità di suoni, stante alla lezione per es. di Roman Jakobson: significato uguale contenuto; significante corrispondente nel suono), è un fatto accertatile e risaputo. Il problema diventa contrastante, quando allo sperimentalismo ci si richiede " un sovraccarico semantico " (semantica uguale scienza del significato o del contenuto). E difatti il Cappi, sapendo di bleffare con la storia e conoscendo i vuoti dello sperimentalismo che sono antistorici e fuori di ogni fenomeno ed epifenomeno, e sapendo altresì che bisogna fare i conti con quella letteratura sopravvenuta con il '68, dopo esser stata messa in crisi la letteratura del gruppo '63 (sperimentalista per eccellenza) - e constatata la proliferazione del postnovismo, soprattutto messa in circolazione dalla repressione di questi ultimi anni) si rifugia con la frase relativa e mistificatoria: " del quale non sempre sono appercepibili le potenze ". E difatti non solo non sono " percepibili " le potenze " semantiche ", cariche e " sovraccariche ", per gli effetti dello sperimentalismo che nega il lato del contenuto o il rapporto intrinseco semantico, ma come corrispondenza ad esso, può solo inoltrare un allargamento del " significante ", cioè del suono. Ed ecco perché le potenze non risultano nemmeno " appercepibili ".
Senza volere ricercare le cause lontane o prossime del fenomeno riportato, ci stupisce questo fascicolo dedicato a una " sintomatologia del giovane morbo " che morbo di Koch non è, né di illustre clinico specializzato di una certa Roma. Come recentemente diceva lo speaker in TV per il funerale di Paolo VI: " Tutta Roma è a piazza S. Pietro ", e da ciò si può dedurre la grandezza dell'urbe immortale, papale o democristiana o del PCI, che se ne frega con a capo il sindaco Argan del " sacco di Roma ", avvenuto nelle dominazioni incontrastate trascorse per opera della politica del fiore candido all'occhiello. Ma è utile sottolineare che questa Roma è quella possibile di Gianni Toti con i suoi beni e mali sperimentalisti o della revisione del partito rivoluzionario in partito delle riforme e più recentemente della stasi; e può essere quella del critico sommo (tiro a sorteggio), Walter Pedullà o di altro illustre benemerito come Giuliano Manacorda che è rimasto a mungere le sue mucche all'indietro, vecchiotte degli anni '50, con spavalderia contrabbandando per epifania qualsiasi data, esclusa quella del 6 gennaio, accalorandosi nelle improvvisazioni, delle parentele per svolgere appendici di ingrassamento alla sua " Storia " della letteratura, personale e fuori della Storia come tutte le mistificazioni ai manufatti tragicamente inattuali in un periodo di standardizzazione dei piani tecnologici della politica culturale-editoriale e super-capitalista. L'inizio della introduzione su " Fermenti " detta da Vitaldo Conte si snoda come atto funebre e con quei rintocchi risultati di obitorio che paiono già inizi e conclusioni. Riporto dal discorso d'apertura quanto segue: " Oggi il giovane morbo è esploso nella valenza epidemica inserendosi come sintomo nuovo nella sintomatologia dei generi morbosi. Da qualche anno è entrato in una fase cruciale; per la introduzione nella normativa funzionale o nello scarico dei padri-sistemi letterari che non possono pompare la produzione e/o pubblicità per liberarsene poi al concilio della Reazione ". A parte l'assenza di una somma chiarezza " nello scarico dei padri-sistemi letterari " (di cui non si capisce con " sistemi " se siano quelli strettamente semantici della grande editoria e del grosso capitale), vi è sottesa una giustificazione di fronte al fenomeno intravisto negativamente (" che non possono pompare ") della tanta produzione letteraria. E allora si chiede perché proporre del postnovismo proliferante " Augeri ", tirato su dalla collana di poeti " casalinghi-internazionali " Lacaita e per merito ovviamente di un responsabile, uno dei due " fratelli Bandiera " sopravvissuto e longevo, un certo Leonardo Mancino, e non altri più originali e meno in erba? perché le condizioni a livello medio, involutivo, scarso, esistenziale rispetto la produzione migliore sessantottesca non privilegiata dai restauratori, Walter Pedullà, Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli? perché il recente volume della " poesia innamorata ", versificazione disamorata della crisi del linguaggio parlato, pubblicata da Feltrinelli, in cui circola una delle ragioni più arretrate e sospette, soprattutto nella constatazione critica, dalla dimensione commisurata e articolantesi nella " situazione crepuscolare "? perché?
Intanto i poeti da salvare (o conservare nel fascicolo) presentati e non presentati (con quel discorso generico di anagrafe, con data di nascita e raramente con data di morte) non sono né buoni né cattivi: sono un po' il risultato di tanti gusti, di ammucchiate totalizzabili (non totilisti), classificabili nella via di mezzo tra un lato del marciapiede all'altro, nella carreggiata di campagna, nella stradella privata del "privato ", tra aratro e proprio orticello, reso pubblico da decreto prefettizio e ordine di esproprio. Uscendo un po' dalle metafore, dal linguaggio divagante e impinguato, la poesia è una produzione per la collettività con uno o più responsabili dal gesto individuale in cui si argomentano, strati su strati, remore linguistiche e atti processuali di un progressivo e progressismo societario: certamente nel linguaggio interagiscono funzioni primarie e secondarie, nelle parti più accostabili e in lontananza dai sintagmi. Un riscontro è molto difficile, non volendo attuare quella condizione di approfondimento necessario come atto scientifico di ricerca e di verifica del testo poetico.
Comunque a contatto dei testi salta a prima vista " Virtù salutari delle erbe " di Lino Angiuli per un tentativo di discorso fuori del meccanicismo parolaio di moda, moda dalla quale scorrono alcuni esempi tassonomici e all'estremo tutti gli " allora " di A. Contò, che non si contano come i " disse " di Sanguineti, d'altronde di derivazione o transloco sospetto, per es. i testi dialogici e filosofici di Platone; o quella in perfezione meno attesa di V.S. Gaudio tratta da una inconfondibile stura di psicanalisi, riflessa ad " oculum ". " Le mappe impoetiche ", di cui abbiamo riportato qualche indicazione in positivo (D. Cara) e altra in negativo (L. Mancino), è un po' inconsueta per i vuoti degli autori preferiti a un questionario di stretta misura; pare altresì ad amici fidatissimi, non guerrafondai a torto o ragione. L'interrogativo che si alza è poi se le scelte sono regolarissime su poeti che si attendono, intendono per affinità linguistica, ideologia e poetica o viceversa alla struttura va la preferenza saggiata o il varo di una amicizia conforme e/o difforme. Il dubbio è grosso e consente una traiettoria lungo un arco di attendibilità, generando qualche remora riflessa, simpatia e antipatia, senza documentazione di esagerazione tassonomica.
Qualche uso, tuttavia, come il caso di A. Cappi, che ricorre al solito viaggio remotamente omerico; più accostato alle sponde della presenza, della pressanza del presente per via e trambusti, le spume tipografiche del " testo ", che come tale " nel viaggio " s'incaglia per ben due volte, preso in lettura andò a finire nella spazzatura e tornò carico di doni endogeni: la terza volta accoppiato sparì con l'intero carico emotivo di imbrattamento della pattumiera. Ma noi sappiamo che spesso i criteri dettati dai poeti, un po' critici e teorici (con il ricorso, rincorsa nella lettura di Lacan o Derrida e un pizzico di aglio) sono quelli della poesia mancata, non riuscita tramite la conversazione dei versi e il condimento editoriale, naturalmente o nella presenza e nella traccia ", nel tracciato dei ghiribizzi delle pretese personali e (im)-poetiche. Comunque i criteri scriteriati o no ritornano nella teoretica, nella incarnazione della critica letteraria leggera e sono poesia se non ottima mediocre o addirittura scadente.
Scrive il Cappi in " Fermenti " n. 6: " II territorio, che è quello dello sperimentalismo, è agitato da intense partecipazioni all'interrogare il significante (e fin qui ci siamo con l'interrogatorio non poliziesco (1)) e da un sovraccarico semantico del quale non sempre sono percepibili le potenze (e qui non ci siamo (2)).
Che lo sperimentalismo nel suo eccessivo sopralluogo a funzione linguistica (formalismo o formalizzazione) abbia di bisogno di un omologizzante significante (il quale quest'ultimo sarebbe la traduzione dello stesso sperimentalismo linguistico, non della sperimentazione linguistica che è un fatto naturale e normale e cioè lo sperimentalismo richiede una adeguata portata e intensità di suoni, stante alla lezione per es. di Roman Jakobson: significato uguale contenuto; significante corrispondente nel suono), è un fatto accertatile e risaputo. Il problema diventa contrastante, quando allo sperimentalismo ci si richiede " un sovraccarico semantico " (semantica uguale scienza del significato o del contenuto). E difatti il Cappi, sapendo di bleffare con la storia e conoscendo i vuoti dello sperimentalismo che sono antistorici e fuori di ogni fenomeno ed epifenomeno, e sapendo altresì che bisogna fare i conti con quella letteratura sopravvenuta con il '68, dopo esser stata messa in crisi la letteratura del gruppo '63 (sperimentalista per eccellenza) - e constatata la proliferazione del postnovismo, soprattutto messa in circolazione dalla repressione di questi ultimi anni) si rifugia con la frase relativa e mistificatoria: " del quale non sempre sono appercepibili le potenze ". E difatti non solo non sono " percepibili " le potenze " semantiche ", cariche e " sovraccariche ", per gli effetti dello sperimentalismo che nega il lato del contenuto o il rapporto intrinseco semantico, ma come corrispondenza ad esso, può solo inoltrare un allargamento del " significante ", cioè del suono. Ed ecco perché le potenze non risultano nemmeno " appercepibili ".
(1) le
parole in parentesi sono mie.
(2) idem.