La finestra di Guido Morselli e i cento Nomi-della-Madre



L’eterotopia dislocata ha in sé una certa sottrazione della libido
ubiquista, l’esclusione dell’Altro o la privazione del fallo cos’è desiderabile,
ma onestamente tutto ciò che non può entrare nel mondo, è questo resto che
si trattiene, l’eterotopia dislocata trattiene, elude, priva l’oggetto a, che
l’onnipotente, dal canto suo, anche se non gioca ai dadi come voleva
Einstein, sa a quale a il desiderio si riferisca, e potrebbe essere uno dei
novantanove Nomi-del-Padre o, essendo una questione iperdulica, uno dei
cento Nomi-della-Madre. Che non si tratta, infine, che di una traccia, “traccia
di quel qualcosa che va dall’esistenza di a al suo passaggio nella storia”1,
perché “non c’è superamento dell’angoscia se non quando l’Altro si è
nominato”1.
L’oggetto a che in qualche modo trascende il soggetto delle “Cronache
romane di fine secolo ventesimo”, al cui comando sfugge, tenuto dentro
l’eterotopia dislocata per il “Vaticana bibere” e le due mule irlandesi, cade
nell’autore in modo talmente significante da trascinarlo nell’automatismo
meccanico insito nella precipitazione-suicidio, che non si realizza in una
cornice qualsiasi, non essendo per caso che avviene “così spesso alla finestra
se non attraverso la finestra, che è come dire far ricorso a una struttura che
non è altro se non quella del fantasma”2:
Mi voltai a salutare con lo sguardo la Finestra, che si parava di rosso nelle
domeniche della mia gioventù. Sotto l’obelisco, come allora,
camminavano coi piedi pesanti due carabinieri, i pennacchi affiancati
annuenti sulle lucerne. E c’erano i ragazzi che strillavano e si
scapaccionavano davanti al negozio delle Suore Paoline. Qualche vecchio
taxi fermo all’imbocco di Via della Conciliazione. Una fila di fedeli, o
turisti, che tagliavano la Piazza in obliquo, sotto il sole, venendo verso di
noi. Una di quelle donne, al solito, si era tolta le scarpe. Saltellava sulle
selci, e rideva3.
Nell’eterotopia dislocata (che è istituita sull’esclusione o sulla privazione)
si presuppone la mancanza dell’oggetto e quindi una castrazione o un debito
simbolico, una frustrazione o un danno immaginario, una privazione o un
buco reale, in cui l’agente è sempre la madre e il debito simbolico istituito
dalla castrazione ha un oggetto immaginario che è il fallo4.
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NOTE
1  J. Lacan, “Da a ai Nomi-del-Padre”, Il seminario. Libro X, trad. di A. Di Ciaccia e A. Soccetti,
Torino: Einaudi, 2007, p. 369.
2 Ivi, p. 368.
3 G. Morselli, Roma senza papa, Milano:Adelphi,1974, pp. 183-84.
4 Cfr. J. Lacan, “La dialettica della frustrazione”, in Id., Il seminario. Libro X, cit.