IN MARGINE A “LA NOVELLA DOPO BOCCACCIO”
Carissima
Flora
L’insofferenza
verso il già detto, il già visto, la stagnazione del pensiero, la metamorfosi
apparente (soltanto apparente) mi hanno sempre indotto a stare se non proprio
“contro” in posizione “anti”. Ciò ha significato essere preso per un reietto,
rifiutato dai circuiti legati alla tradizione ad ogni costo o appena scalfiti
da un tentativo di riscossa (leggi neoavanguardia). Cosa, in particolare, mi
portasse a una forma di massimalismo nato da una pratica ermeneutica cui mi
avevano avviato testi ed insegnanti del liceo (ottimi gli uni e gli altri: tra
i primi Hume, Fichte e Leibniz) non saprei dire se non attribuendolo ad una
condizione di disagio esistenziale. Ero vissuto nei primissimi anni dell’apprendimento
in un ambiente asfittico vuoi in quanto provinciale (la città di Reggio
Calabria dove eravamo finiti) e vuoi permeato ancora di fascismo come se quel
regime non fosse finito (ed infatti non era finito tant’è che poi ci fu il
fenomeno del Boia a chi molla). In
qualsiasi discussione si facesse al mare o passeggiando per Il Corso, il rimando era sempre alla
civiltà ateniese e alla Magna Grecia sicché si viveva di nostalgia senza
preoccuparsi di progettare il futuro. Dev’essere scattato qualcosa – forse la
cultura scientifica di mio padre o forse un convegno cui partecipai da timido
spettatore – se spazzai via tutto il culturame pseudo-filosofico, sociale ed
esistenziale rinchiudendomi in me stesso come un riccio e vagheggiando una fuga
verso spazi più ampi. La prima tappa fu Torino, cui seguì una serie di viaggi
in Francia (alla ricerca della mitica rivoluzione prodotta dall’Illuminismo e
seguita dalle guerre di Napoleone all’ancient
regime). Ancora dopo, i molti anni passati tra Roma, New York e Los Angeles
per poi approdare a Palermo ormai però corazzato e radicalmente imbevuto di
forme di democrazia partecipata e amore per la scienza quale prospettiva per un
futuro a lunga scadenza per il genere umano.
Perché
l’incipit, il superiore incipit, per dirti che ho sottomano il tuo testo quale
apparso su Rivista di studi italianie che già della prime pagine faccio mio, sopratutto per la sintesi del lavoro
contenuta nell’abstract? Ebbene sì, mi mancava nello scacchiere italiano della
narrativa il ruolo “rivoluzionario” degli scrittori che citi, mi riferisco a
Sacchetti, Sercambi, Gherardi e Sermini; e mi domando come mai l’italianistica
li abbia dimenticati o quantomeno trascurati fino ad ora. Giusto perciò
riesumarli e proporli da innovatori delle patrie lettere e creare una sorta di
terremoto attorno a loro: più o meno simile a quello che distrusse Reggio e
Messina senza però riuscire a sradicare la grecità in gran parte tuttora
imperante in quelle plaghe.
Potrei
provare ad azzardare una risposta, da profano ma che guarda alle grandi
dimensioni del sapere. Potrei semplicisticamente fare risalire la stagnazione
della letteratura italiana – portata ad intridersi di sé – alla presenza sul
piano storicistico-idealistico di figure dominanti quali Croce e De Sanctis,
per quindi l’approdo finale con Gentile, ma la radice del male (cosa diversa da
Les fleurs du mal di Baudelaire)
risiede nella presenza asfissiante della Chiesa Cattolica e dei Papi, i cui
filamenti in forma metastatica toccano tutti i gangli del pensiero cogente.
Dunque il latino ed il greco quale causa prima del forte legame che ci lega al
passato vissuto perennemente come presente; seguito subito dopo dalle ore di
religione; viaggi da boy scout; seminari e seminaristi; cerimonie funebri,
battesimi e matrimoni in chiesa; dibattiti su spiritualità e sopravvivenza
ultraterrena e giammai più il criticismo operato, dal protestantesimo tutto, al
potere monolitico delle parole e della gestualità papale sulle coscienze sempre
meno raziocinanti degli italiani.
Capisco
però che gli studiosi di italianistica queste cose (assunte come blasfeme) non
possano scriverle o dirle. Io mi arrogo il diritto di poterlo fare, rischiando
la scomunica cui rispondere con altrettale scomunica nascente dal mio diritto
di potere essere diverso, in senso laico. Quando la scuola dell’obbligo e
l’Università si saranno liberati della soggezione al potere costituito nella
forma più subdola – perché fondato più sul verbo che sull’uso delle armi –
anche l’Italia spiccherà il volo verso una attiva partecipazione alla
trasformazione in veste moderna della società e del pensiero creativo: sia in
chiave umanistica che scientifica.
Altrimenti
dovremo continuare a velare le nostre pulsioni verso il futuro col mantello
della carità (“Per carità, fateci essere ciò che desideriamo essere”) quasi
vergognandoci di essere CONTRO o quantomeno ANTI.
Ignazio Apolloni