│by René Groebli, 1949 |
Tra meccanica e murfologia
situazionale, il marito di Mia Nonna dello Zen, essendo nonno del poeta, ebbe a
narrare al poeta ragazzo un fatto per molti versi omologo a quello che Mark
Twain narrò prima di lui con il titolo di Cannibalismo
in ferrovia[i].
Il poeta ragazzo rammenta che il nonno ebbe a commentare quell’avvenimento
straordinario della sua vita con questa regola: “Più è urgente il motivo per
cui fai la coda alla biglietteria, più è veloce e capace l’impiegato a trovarti
un posto in un convoglio destinato all’inferno”, una sorta di Regola di Flugg[ii]
completamente capovolta. Per la
meccanica, il nonno soleva sempre
concludere la narrazione di quell’increscioso fatto con una sua personale Legge
di Watson: “L’affidabilità di un macchinario è inversamente proporzionale al
numero e all’importanza delle persone che ne fanno uso”[iii].
Insomma, avrebbe potuto non
prendere in tempo quel treno, non si sa se in Argentina, forse sulla tratta che
dalla costa porta verso Bariloche, o forse addirittura in Calabria su un tratto
di ferrovia che, poi, nel secolo in corso, sarà definitivamente abbandonato
nonostante fosse ancora un’arteria di
importanza nazionale e strategica. Invece, la velocità e la solerzia del
bigliettaio gli permise di salire su quel convoglio giusto in tempo per partire
verso sud, se in Calabria; verso ovest, se in Patagonia.
Il treno non era misto, nel
senso che portava solo passeggeri e la locomotrice era a vapore, tanto che il
nonno parecchie volte, nel raccontare la storia, si soffermava sulla caldaia,
il fumaiolo, e anche sull’asta dello stantuffo. Le carrozze erano le cosiddette
carrozze pullman, lo scompartimento separato era di là da venire. Le azioni
tipiche: fischiare, sbuffare, ansimare.
Vi erano solo 23 passeggeri
in tutto, uno in meno rispetto al racconto di Mark Twain, aggiungeva sempre il
nonno del poeta. E non eravamo diretti a Chicago. Non vi erano signore né
bambini. Eravamo coscienti del fatto che c’era qualcosa di Heimlich nella
faccenda e nell’aria, innanzitutto perché la legge dei treni era stata
disattesa: non si riusciva a capire come
mai la coincidenza fosse partita in perfetto
orario. Ma nessuno osava dirlo. Era venerdì sera, e, si sa, il mal di
denti tende a cominciare venerdì sera. Ma anche il mal di stomaco. Non si sa se
verso Sibari, se in Calabria, o a venti chilometri dalla costa, se in Patagonia,
cominciò a nevicare fitto, eravamo in quella tremenda Piana solitaria che si estende per chilometri
e chilometri di deserto verso paesi che il solo nome pronunciato procurava
terrore, tanto che nessuno dei viaggiatori osava fissare gli occhi sul cartello
della stazione dove il treno era in fermata, per evitare di dover dire a un
compagno di viaggio che glielo avesse chiesto in quale paese fossimo in
fermata.
Il vento fischiava
fieramente attraverso il buio piatto e deserto, intanto che la neve si
ammucchiava rapidamente, finché capimmo, dalla diminuita velocità del treno,
che la locomotiva aveva difficoltà a farsi strada. Finché, forse dalle parti di
Cirò, cittadina famosa per il latinista Siciliani e i produttori dell’omonimo
vino “Cirò” Caparra & Siciliani, la locomotiva si arrestò come un corpo
morto, in mezzo a grossi cumuli di neve che si ergevano, come colossali
sepolcri, lungo la linea.
Il nonno del poeta, che era
affetto da satiriasi acuita da una pulsione k continuamente tesa,
aveva per questa sua caratteristica bisogno, quantomeno, di menarselo almeno
ogni mezz’ora, cosa impossibile da fare in questa incresciosa situazione.
Non essendoci nemmeno signore in
viaggio, non si poteva ovviare alla crisi di astinenza del viaggiatore così teso
anche con un semplice tocco della mano inguantata. Fu terribile, diceva il
nonno. Fin quando molti andarono fuori a
spalare la neve con le pale, il nonno poteva toccarsi il fallo e darsi un po’
di gaudio, nell’oscurità ormai sopravvenuta anche all’interno delle carrozze.
Gli spalatori infine rientrarono esausti nel vagone per la fatica e
infinitamente addolorati, come il nonno del poeta che, correndo di carrozza in
carrozza, se l’era menato eiaculando di qua e di là, in alto, in avanti, a
lato. Era esausto anche lui. Non c’erano
stufe su quel convoglio. Non avevamo alcuna provvista, questo diceva il nonno,
e le bottiglie di Cirò ormai erano state tutte tracannate. Unico conforto, non
potevamo restare assiderati, perché vi era una buona scorta di carbone nel
tender.
Insomma, qui il nonno
sintetizzava la narrazione: insomma, non si poteva proseguire a piedi, non si
poteva mandare nessuno in cerca di soccorsi e anche se l’avessimo fatto chi
sarebbe venuto in soccorso, tra quei pochi dispersi della Culavria o della
Patagonia. Era la fine. Ma il (-φ) del nonno contraddiceva
anche la teoria di Lacan. Nonostante il susseguirsi della notte e poi del
giorno, e la neve che si accumulava implacabile, la satiriasi del poveruomo era
devastante. Fuori, una scena desolata, non una creatura vivente era visibile,
né un’abitazione umana. Il nonno si isolò nell’ultima vettura. Gli altri 22 tra
sonni irrequieti, sogni di festini e di scorpacciate, risvegli tormentati dai
languori della fame nella vettura di testa, vicina alla locomotiva. Mark Twain
dice che passarono cinque giorni; il nonno del poeta dice che ne passarono
addirittura sette di giorni.
Non è il nonno del poeta: è Mark Twain ♦ |
E aggiungeva anche che non
ce la faceva più, aveva bisogno di un’originaria delle cosiddette terre degli
ammašcanti per ridurre la pulsione k e la tensione del cosiddetto (-φ), che, più cresceva la fame, più sembrava che
il quarto grado dell’erezione di cui a Eric Berne fosse ormai superato di
almeno quattro altri gradi! Una fame selvaggia si leggeva negli occhi di tutti;
negli occhi miei, narrava il nonno, si leggeva un segno spaventoso, l’ombra di
quella cosa assoluta che è il Dipartimento della Culabria del Nord-Est, quella
cosa , il buco della grande ombra che sempre si era formato nel suo cuore e che
nessuna lingua, né quella italiana, né
quella spagnola, né il gergo ammašcante, o il dialetto saraceno, osava mai
tradurre in parole.
L’istinto stava per avere il
sopravvento, anche perché c’era stato all’alba del settimo giorno un
provvidenziale decesso. Un parente del nonno, che proveniva dai paesi
dell’entroterra del nord-est culabrico, alto, cadaverico e pallido, definirlo
longilineo o ectomorfo sarebbe stato uno spreco estetico. Anche dal punto di
vista alimentare, un tale elemento cosa avrebbe dato in ragione di apporto
proteinico, energetico e vitaminico?
Comunque, adesso, questo
diceva il nonno, eravamo in 22. E non so chi tirò fuori gli arcani maggiori del
Tarocco! Si trattava pur sempre di dover
sopravvivere, tutti sapevano ciò che stava per accadere, tutti erano preparati,
ogni segno di emozione era soffocato, d’altronde tra quegli individui, che
provenivano dalla razza ammašcata e quadarara in parte e da quella nomade
legata al salvacondotto della Chiesa e infine da quella che aveva il doppio
passaporto genetico della cosiddetta da Georges Perec “Fiscalrassi” , l’istinto
del selvaggio era stato sempre vivo dietro un’apparente addomesticata
indifferenza. Signori, l’effetto delle fluttuazioni statistiche delle frequenze
geniche si capisce più facilmente se si ha la pazienza di praticare un
esperimento di simulazione: semplifichiamo al massimo la situazione – questo
profferì in quel mattino gelido il nonno del poeta – siamo rimasti in 22, come
gli arcani maggiori, e questo è il mazzo di carte che definirà il nostro
destino. Signori, non si può tardare oltre, è venuto il momento, dobbiamo
decidere chi di noi, un giorno dopo l’altro, dovrà morire perché gli altri
possano cibarsene! Non possiamo attuare nessuna selezione naturale o adottare
altre cause di cambiamento. Prendiamo le carte e ad ogni lama abbiniamo ognuno
di noi, non conta il genere Rh negativo e nemmeno il genere Rh positivo,
nessuno potrà rifiutare il tarocco che sarà la lama del suo destino: nessuno
potrà adottare la Prima Legge del Bridge: “E’ sempre colpa del compagno”. Non
possiamo prevedere con successo chi di noi risulterà indigesto, né possiamo
predisporre ad oggetto di consumo gli elementi più appetibili e appetitosi. Non
c’è nessuna gerarchia, anche se è risaputo che in una gerarchia ogni membro
tende a raggiungere il proprio livello di incompetenza. E sappiamo anche che la
supercompetenza è peggio dell’incompetenza. E’ immangiabile. Il placebo di
Peter[iv]:
scordatevelo. Si potrà, se volete, pensare al “valore selettivo”, o, in
mancanza, al “valore riproduttivo”, per bilanciare l’effetto-Heimlich del caso
e del fortuito, della semplice estrazione della lama; la selezione naturale è
un processo automatico, del tutto inevitabile, le cui conseguenze sono
perfettamente prevedibili in base a proprietà demografiche (sopravvivenza e
fecondità) dei tipi genetici possibili. Ma è anche vero, e questo i genetisti
non lo dicono, che in ogni gruppismo umano, va a finire che si centra sempre come
buco quello del livello gerarchico più basso. Io direi di fare un’estrazione al
giorno, potrebbe bastare fin quando arriveranno i soccorsi, sperando che almeno
uno di noi possa sopravvivere e , per il bene della nostra razza polimorfa,
spero di essere io, disse il nonno, cosicché con il mio (-φ) affetto notoriamente da satiriasi possa far
riprodurre le tre razze indicate copulando con le vostre vedove.
Il nonno del ragazzo poeta a
cui raccontava la storia a questo punto veniva puntualmente interrotto: una
volta arrivava la Nonna, un’altra la zia con la tazza di latte, un’altra la
nipote con il caffè e il sigaro, un’altra l’infermiera con il pappagallo,
un’altra ancora la donna di turno che
doveva riappacificargli la pulsione k[v] e
sgonfiargli l’erezione di 8° grado, eccetera. Finalmente, il ragazzo, che
sarebbe diventato poeta, un giorno gli chiese quale fosse stato il tarocco
sopravvissuto, visto che lui era risultato
il (-φ) nominato per la
sopravvivenza e la riproduzione.
Il calcolo delle probabilità
– questo disse il nonno – mostra che si arriva sempre all’omogeneità, ma talora
occorrono molte estrazioni. Quanto più grande il numero di individui, tanto più
grande il numero di estrazioni necessario per arrivare all’omogeneità. Senza
considerare che in quell’organizzazione gerarchica che c’era sul treno, il
livello alto rese maggiore la confusione. Comunque ebbi la lamina del Folle, che non ha nessuna cifra, quindi
fui lo 0 o il 22, il microcosmo, il compendio di tutto in tutto, ma anche
l’espressione dell’impantanamento del viaggio e della ruota, l’individuo allo
stremo, al margine di ogni ordine o di ogni sistema, insomma ero io il centro,
nella ruota delle trasformazioni, al di fuori della mobilità, del divenire e
del cambiamento, vittima sostitutiva vera e propria, sopravvissuto dovetti
commutare la mia pulsione originaria in una pulsione consona alla riproduzione,
insomma sopravvissuto sì ma in realtà capro espiatorio del gruppo, precursore
del joker, per la mia disponibilità fallica, ubiquo personaggio, erratico e
ondeggiante, alla mercé del destino, godo di questa strana unanimità, briscola demografica,
sopravvissuto per fecondare le fattrici delle tre razze in questa bisaccia
allocate.
Comunque, ebbe a precisargli
una volta cresciuto il ragazzo poeta, il tuo gene 0, nel sistema dei gruppi
sanguigni AB0, che ha la punta massima che raggiunge invero il 100% nella
maggior parte dell’America[vi]
ma il 92% in Patagonia e non più dell’80% in Culabria, è quello che ha permesso
alla selezione naturale l’eliminazione dei gruppi diversi dallo 0, quelli cioè
che come minimo, se fottono in determinate condizioni non protette, si beccano
sempre la sifilide, la malattia gallica e anche degli ammašcanti; così, forse è
per questo, che sei sopravvissuto in quanto Joker e inseminando tutte quelle
vedove, abituate a copulare con attanti dotati del gene A e B, più portati a
essere infettati, sei sopravvissuto anche alla sifilide di cui erano portatrici
quelle benedette donne della razza ammašcante della bisaccia. ♦ by Gaudio Malaguzzi
[i] Cannibalism in the Cars, ©
1868.
[ii] “Più è urgente il motivo
per cui si fa una coda, più lento sarà l’impiegato allo sportello”.
[iii] La Legge di Watson, di
cui a Murphy’s Law ©
1977, è questa: “L’affidabilità di un macchinario è inversamente
proporzionale al numero e all’importanza delle persone che lo custodiscono”.
[iv] “Un grammo di immagine
val più di un chilo di fatti”.
[v] E’ quella del narcisismo
primario che alimenta l’estetica da un lato e la metafisica e la matematica
dall’altro; tra feticismo e isteria di conversione spiega la sintomatologia
ossessiva e catatonica della satiriasi del nonno del poeta. Cfr. Leopold
Szondi, Introduzione all’ Analisi del
destino, © 1972
, trad. it. Astrolabio, Roma 1975.
[vi] Cfr. Luigi Luca
Cavalli-Sforza, Diffusione demica o
diffusione culturale?, in: Idem, Geni,
Popoli e Lingue, trad.it.Adelphi, Milano 1996.