Szombathely New York Express ♦
Tra le stele verticali che
arricchiscono l’intreccio delle edere, circolavano i rumori di ferro della
stazione divisoria. Si sarebbe creduto di camminare nel cuore di un vestigio,
quello di una risaia prosciugata in permanenza dal canto degli uomini.
Il freddo era là preciso per indurire la tonalità.
Ci ripensai all’angolo di una via, quando scorsi al di là del bidone e del
casellario per giornali, le stesse stele, ma mute in questo triangolo orfano,
che si sforzavano molto contro altre immense, libere dai soggiorni quotidiani
degli uomini. La pioggerella scacciava dalla sua densa noia il chiarore ottuso
del freddo.
La camera dell’hotel aveva la piccolezza richiesta per obbligare a riprendere
il cammino.
Sulla chiave rimanevano per altri i suoi punti cardinali 4-E-1.
L’ultimo dopo il treno.
*
Nessun
treno qui. O là. Altrove.
L’alcol
diventa lo staccato del tremito
Perché
bisogna tremare. La terra trema
qui
sotto ai miei piedi. Il blu è figura della paura.
I
cimiteri sono parsimoniosi. Non ci sono
gatti.
A Szombathely sotto la neve non più.
I
fiori a New York sono recisi qui. Il
treno
non vi è per niente, non esiste più.
Ho
camminato sulle traversine come sulla
mia
vita, di traverso più del legno
impassibile,
il suo disprezzo durerà fino al ruolo
che
il brulotto stimola. Si può fermare
il
fuoco fino al suo impiego. Nessun treno qui,
tranne
il rumore del silenzio, sempre,
un
po' di neve per accompagnare la caduta
del
blu. Qui i vagoni sono immobili,
intirizziti
sotto al sole d’inverno. Qui l’edera
non
rinchiude che il ricordo, come un becco
dilatato
si crede padrone del tempo.
Nessun
treno qui, mai più; il papagallo
è
capostazione. L’alcol
non
trema più, la sua giornata è compiuta.
E
questo treno invisibile attraversa
in
proprio l’ufficio e le grida
allora,
la terra trema di essa
E io
sono stanco, sicuro...
*
Niente
è grave quando l’ora è superata. L’ultimo vagone è quello che si attarda per la
televisione. Il gesto di solitudine diventa il dire dell’abbandono.
Partire
è l’esercizio usuale.
Non
si spostano di più le tombe della traccia del corpo là dove è caduto.
L’edera,
fuori, prende
il
tempo della mancanza
e
spoglia la speranza
dalla
sua sorda volontà
il
muro esploso di sole
Il
treno, la sua scomparsa
istradata,
il
fumo solo si accorda.
L’odore
quando i tuoi talloni
sulla scala
suonano
la stessa ora
*
Un
disastro, la mano tagliata per esempio forata per l’uso, - il contorno della
mano da allora preparato - palma - le dita fanno soliloqui una memoria tessuta,
il cerchio evita nel porto del cerchio - la pianura curva per noia della
pianura - il riflesso del parrucchiere - il rasoio taglia giusto; una barba al
contrario ridotta all’ombra del fumo di qualche carne - il disastro,
il
pappagallo turco che ripete in francese, - canzonatura involontaria, le ali
tagliate sbattono - il suolo ripete il rumore, non sopportando più il sangue,
rosso collegato.
Lui
rimise la pendola all’ora, io presi il tempo di leggere che fu senza successo.
Sotto
al freddo qualche erba giura di immobilizzare, inavvertitamente, un vagone
smobilitato.
*
Szombathely
con
il tempo freddo
di me la notte
l’età
è dopo
le labbra si raggriziscono
il
sorriso sdentato
suonano le quattro
Domani
il cieco
sorriderà
*
Le
poche ore. Ad ogni angolo il sole invecchia.
l’ombra
segue, urtata appena.
Il
tombino segna la pagina.
Poi
girare a destra
all’angolo
dritto
la
lampadina del lampione è bruciata.
Senza
luci l’eco del T.G.V.
la
piccola croce di mezzanotte.
Che
cosa diventano le rotaie
dopo
di loro
Che
si lascino
non dimenticheranno i due soli
l’orfano
cammina
lentamente e l’erba schiacciata
gli
ricorda, esaurendo il suo cammino,
che un passante è stanco
Mi alzai, la scala non era mai servita. Il muro probabilmente per il dialogo
immutabile, è un contro a sé stessi che si raccontino ancora per stare.
Uscito dalla pioggia e dagli schiaffi silenziosi della montagna, su questo
tentativo di strada autorizzata dalla memoria delle pietre, esse spinte ma
tignose, arringando il tempo e la sua speranza- : Il Vostro spostamento è il
mio piacere di vedervi intimare, voi là spostata io so di voi il contrario e
l’incapacità - un vagone ridipinto, tranquillo, stationava tra due donne che
non avevano la stessa età.
La birra Kasbegi non aveva il colore della pioggia dall’altro lato del
finestrino di cui tirai la tenda. Il vagone legava altri malintesi allorché io
sapevo, qualche ora dopo, il muro cedeva sempre, appena affaticato all’impresa
della scala. Mi ero sforzato a dieci chilometri da Vladikavkaz.