Christian Bouthémy ♦ Il treno di Szombathely


 Szombathely New York Express 

            Tra le stele verticali che arricchiscono l’intreccio delle edere, circolavano i rumori di ferro della stazione divisoria. Si sarebbe creduto di camminare nel cuore di un vestigio, quello di una risaia prosciugata in permanenza dal canto degli uomini.
            Il freddo era là preciso per indurire la tonalità.
            Ci ripensai all’angolo di una via, quando scorsi al di là del bidone e del casellario per giornali, le stesse stele, ma mute in questo triangolo orfano, che si sforzavano molto contro altre immense, libere dai soggiorni quotidiani degli uomini. La pioggerella scacciava dalla sua densa noia il chiarore ottuso del freddo.
            La camera dell’hotel aveva la piccolezza richiesta per obbligare a riprendere il cammino.
            Sulla chiave rimanevano per altri i suoi punti cardinali 4-E-1.
            L’ultimo dopo il treno.



*


Nessun treno qui. O là. Altrove.
L’alcol diventa lo staccato del tremito
Perché bisogna tremare. La terra trema
qui sotto ai miei piedi. Il blu è figura della paura.
I cimiteri sono parsimoniosi. Non ci sono
gatti. A Szombathely sotto la neve non più.
I fiori a New York sono recisi qui. Il
treno non vi è per niente, non esiste più.
Ho camminato sulle traversine come sulla
mia vita, di traverso più del legno
impassibile, il suo disprezzo durerà fino al ruolo
che il brulotto stimola. Si può fermare
il fuoco fino al suo impiego. Nessun treno qui,
tranne il rumore del silenzio, sempre,
un po' di neve per accompagnare la caduta
del blu. Qui i vagoni sono immobili,
intirizziti sotto al sole d’inverno. Qui l’edera
non rinchiude che il ricordo, come un becco
dilatato si crede padrone del tempo.
Nessun treno qui, mai più; il papagallo
è capostazione. L’alcol
non trema più, la sua giornata è compiuta.


E questo treno invisibile attraversa
in proprio l’ufficio e le grida
allora, la terra trema di essa
E io sono stanco, sicuro...



*


Niente è grave quando l’ora è superata. L’ultimo vagone è quello che si attarda per la televisione. Il gesto di solitudine diventa il dire dell’abbandono.
Partire è l’esercizio usuale.
Non si spostano di più le tombe della traccia del corpo là dove è caduto.


L’edera, fuori, prende
il tempo della mancanza
e spoglia la speranza
dalla sua sorda volontà
il muro esploso di sole



Il treno, la sua scomparsa
                                               istradata,
il fumo solo si accorda.
L’odore quando i tuoi talloni
                                               sulla scala
suonano la stessa ora



*


Un disastro, la mano tagliata per esempio forata per l’uso, - il contorno della mano da allora preparato - palma - le dita fanno soliloqui una memoria tessuta, il cerchio evita nel porto del cerchio - la pianura curva per noia della pianura - il riflesso del parrucchiere - il rasoio taglia giusto; una barba al contrario ridotta all’ombra del fumo di qualche carne - il disastro,
il pappagallo turco che ripete in francese, - canzonatura involontaria, le ali tagliate sbattono - il suolo ripete il rumore, non sopportando più il sangue, rosso collegato.

Lui rimise la pendola all’ora, io presi il tempo di leggere che fu senza successo.





Sotto al freddo qualche erba giura di immobilizzare, inavvertitamente, un vagone smobilitato.



*


Szombathely
con il tempo freddo
                        di me la notte
l’età è dopo
                        le labbra si raggriziscono
il sorriso sdentato
                        suonano le quattro
Domani il cieco
                        sorriderà



*


Le poche ore. Ad ogni angolo il sole invecchia.
l’ombra segue, urtata appena.
Il tombino segna la pagina.
Poi girare a destra
all’angolo  dritto
la lampadina del lampione è bruciata.
Senza luci l’eco del T.G.V.
la piccola croce di mezzanotte.
Che cosa diventano le rotaie
dopo di loro





Che si lascino
                        non dimenticheranno i due soli
l’orfano cammina
                        lentamente e l’erba schiacciata
gli ricorda, esaurendo il suo cammino,
                                   che un passante è stanco

            Mi alzai, la scala non era mai servita. Il muro probabilmente per il dialogo immutabile, è un contro a sé stessi che si raccontino ancora per stare.
            Uscito dalla pioggia e dagli schiaffi silenziosi della montagna, su questo tentativo di strada autorizzata dalla memoria delle pietre, esse spinte ma tignose, arringando il tempo e la sua speranza- : Il Vostro spostamento è il mio piacere di vedervi intimare, voi là spostata io so di voi il contrario e l’incapacità - un vagone ridipinto, tranquillo, stationava tra due donne che non avevano la stessa età.
            La birra Kasbegi non aveva il colore della pioggia dall’altro lato del finestrino di cui tirai la tenda. Il vagone legava altri malintesi allorché io sapevo, qualche ora dopo, il muro cedeva sempre, appena affaticato all’impresa della scala. Mi ero sforzato a dieci chilometri da Vladikavkaz.


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