Alessandro Gaudio ░ La fantasia esausta di Doctorow

gaudia 2.0 ricorda E.L.Doctorow con questo testo di Alessandro Gaudio, tratto da Il limite di Schönberg, Prova d’Autore Catania 2013, gentilmente concesso dall’editore e dall’autore.


La fantasia esausta di Doctorow


Si dà il caso che la scrittura corrisponda al mio desiderio compensatorio di rimanere in vita. (HL, p. 212)[1]


La costruzione dell’ultimo romanzo dello scrittore americano Edgar Lawrence Doctorow è esemplarmente giocata sulla strenua rispondenza tra una costante di forma, l’artificio stilistico dell’accumulazione, e una costante tematica, la sindrome da accaparramento compulsivo che ha reso celebri i fratelli Collyer, trovati morti nella loro abitazione nel 1947, sepolti da una straordinaria congerie di cose inutili e insolite, raccolte in anni e anni di ammassamento caotico. Dalla giustapposizione operata da Doctorow (che, nel romanzo, prende spunto dal fatto di cronaca per risalire, con qualche correzione, sino al mito) risulta una manifestazione di compromesso tra due istanze forse compatibili sul piano letterario ma, proprio su questo piano, contraddittorie e ambivalenti. 

Homer & Langley è, così, il negativo fotografico – come avrebbe detto Francesco Orlando –[2] di ciò che l’opulenta società capitalistica impone che sia l’ordinamento del reale (lo stato delle cose) e si colloca come ultima pietra miliare di quel disagio che molti uomini di lettere continuano a esprimere nei confronti del nostro tempo. Secondo il teorico palermitano, servendosi del suo spazio immaginario, la letteratura mostra e, al contempo, contraddice l’assetto della realtà e diventa sede di un ritorno del represso antifunzionale.[3] È tutto da valutare il modo in cui a tale non-funzionalità primaria si affianca nell’opera di Doctorow una funzionalità di recupero secondaria.

   
                                        
«Le immagini delle cose non sono le cose stesse» (HL, p. 215). Al primo livello, dunque, si pongono le interminabili rassegne degli oggetti raccolti da Langley che descrivono e contrario, cioè senza un ordine logico, l’ambiente al quale appartengono: esse traspongono nella scrittura quel sentimento di rottura che Doctorow sembra sentire nei confronti del mondo reale. Si tratta, il più delle volte, di agglomerati coordinativi asidentici, omogenei, che non presentano alcuna progressione ascendente o discendente e che non terminano con vere e proprie climax o anticlimax; tuttavia, – come ben si evince dai quattro esempi che riporto qui – sono retti da rilievi metatestuali che ricostruiscono, a mo’ di iperonimo, la funzione di ogni cumulo insignificante:
                      
Possedevamo cartucciere, scarponi, elmetti, borracce, gavette di latta con posate di latta, tasti telegrafici, detti bug, ideati per l’Army Signal Corps, un tavolo coperto di pantaloni grigioverdi e giubbe militari alla Ike, tenute di fatica, coperte di lana robusta, coltellini tascabili, binocoli, scatole di decorazioni e così via. Gli anni attraversavano la nostra casa come un vento, e quelli erano gli oggetti depositati dai venti di guerra. (HL, p. 110)

Ma i suoi uomini, forse sbalorditi dalla collezione di nostro padre lì esposta, gli organi umani e i feti galleggianti dentro vasi di formalina, le tonnellate di libri che traboccavano artisticamente dagli scaffali, i vecchi sci di legno nell’angolo, le sedie accatastate una sull’altra, le fioriere piene di terra degli esperimenti botanici di nostra madre, l’anfora cinese, l’orologio del nonno, i meccanismi interni di due pianoforti, gli alti ventilatori elettrici, le numerose valigie e il baule, le cataste di giornali accumulate negli angoli e sopra la scrivania, la vecchia borsa da medico in pelle nera screpolata da cui spuntava lo stetoscopio – tutte prove di una vita ben vissuta – insomma, di fronte a tutto questo gli uomini sembravano incapaci di muoversi. (HL, pp. 122-123)

Se c’era luce a sufficienza era possibile farsi strada negli zigzaganti corridoi di balle di giornali, o trovare un varco infilandosi di traverso fra mucchi di oggetti vari – parti meccaniche di pianoforti, motori avvolti nei cavi di alimentazione, cassette degli attrezzi, quadri, pezzi di carrozzerie di automobili, copertoni, sedie accatastate, tavoli sopra tavoli, testate di letti, barili, pile di libri crollate, lampade d’antiquariato, pezzi di mobili dei nostri genitori, tappeti arrotolati, mucchi di vestiti, biciclette – ma occorreva il dono naturale di un cieco, quello di percepire la posizione degli oggetti dall’aria che li circondava, per andare da una stanza all’altra senza ammazzarsi. (HL, p. 166)

Al piano di sopra ha accumulato piramidi di roba, in una maniera tale che basterebbe sfiorare uno di quegli oggetti – gomme di automobile, una pentola a pressione, manichini da sartoria, cassetti vuoti, fusti di birra, vasi da fiori, mi dà quasi piacere immaginare le varie possibilità – e tutto l’insieme piomberebbe addosso all’intruso, al mitico scassinatore bersaglio degli stratagemmi di Langley. (HL, p. 214)

Ciascuno dei frammenti evidenziati in grassetto sottolinea un aspetto fondamentale della vicenda raccontata da Doctorow e il modo in cui questo si riconnetta all’ethos dell’accumulo che regge tanto la sua prosa quanto le modalità comportamentali dei suoi personaggi. Quelle cose accatastate dimostrano quanto sia disordinato, illogico e ripetitivo lo statuto del tempo vissuto e quanto esse siano importanti per riempire una vita vuota e insopportabilmente immutabile; sul versante opposto e al contempo, la loro ingombrante presenza rimanda allo scacco cui si presterebbe una condizione di isolamento e di mutua esclusione che non riesce a fronteggiare la vita esterna, che non è capace cioè di comprenderne la natura. Il museo-manicomio dei Collyer (replica smemorata della modernità tarda al Teatro della Memoria di Giulio Camillo) è l’esatta rappresentazione di una condizione umana che non progredisce e, insieme, il passo necessario (così come necessario era il folle Rameau creato da Diderot per la società francese del XVIII secolo) per tenere testa a questa situazione stagnante. Agisce, dunque, in una sfera culturale che resta domestica, chiusa in se stessa, anche in ragione del fatto che l’attenzione allo stile della narrazione si sposa con il suo oggetto. Gli oggetti accatastati caoticamente sono lo specifico che riempie il vuoto lasciato dalla fredda e asciutta struttura sintattica dell’elenco. Cecità e disorganizzazione cronica (o disposofobia) fanno sì che le cose prelevate dal mondo non siano disposte secondo una buona norma e un giusto rapporto: costituiscono l’incarnazione di quella cellula malata che, nello stesso tempo, diventa – come direbbe Adorno – la sola cellula di guarigione per l’inane e universale buon senso.[4] Inoltre, non è detto che quello visibile o quello che appare nella nostra mente – confessa Langley al fratello cieco (cfr. HL, p. 55) – sia effettivamente il mondo reale: in base a tale assunto, le difficoltà di percepire la realtà da parte di Homer sono quasi certamente le stesse di qualsiasi altro individuo.
Si è detto cecità e disorganizzazione; bisognerebbe aggiungere un terzo fattore, anch’esso fondamentale nella determinazione della visione della realtà proposta da Doctorow: si tratta della ripetizione. L’indugiare del periodo intorno al comporsi e al ricomporsi dell’azione in uno stato di perenne insoddisfazione è molto frequente nei primi romanzi dello scrittore americano. Il ritmo sintattico di Ragtime, romanzo del 1975, assume, ad esempio, tale scansione: «Houdini intrattenne gli artisti di circo con alcuni semplici giochi di destrezza. Si mise in bocca una palla da bigliardo, chiuse la bocca, la riaprì, e la palla non c’era più. Chiuse di nuovo la bocca, la riaprì, e ne tolse la palla da bigliardo. Si infilzò un ago da cucire in una guancia e lo tirò fuori dalla parte interna. Aprì la mano e c’era un pulcino vivo. Tirò fuori dall’orecchio una lunga striscia di seta colorata».[5] Anche nel Lago delle strolaghe, pubblicato quattro anni dopo, è facile imbattersi in periodi che, oltre a sottolineare il modo in cui l’attenzione indugia – passaggio dopo passaggio – sul suo oggetto, propende per accentuare i fenomeni della sintassi parlata (rarefazione della punteggiatura e uso di frasi segmentate sopra tutti gli altri): «ero ai fari. Cominciavo con l’attaccare con quattro viti due montature metalliche le viti stavano in un loro recipiente le montature s’incontravano alla convergenza di due nastri trasportatori la montatura di sinistra dal nastro di sinistra quella destra dal nastro di destra. […] Poi fissavo i pezzi così incrociati all’interno d’un pezzo ricurvo di latta che aveva la forma d’un vaso da fiori. Inserivo quindi in un foro del vaso circa un metro di filo isolante, lo tagliavo con una cesoia, annodavo il filo in modo che non scivolasse e rimettevo il tutto sulla linea di montaggio per l’operario successivo che provvedeva ai contatti elettrici, schiaffava su il cromo e spediva il tutto alla catena principale per il montaggio sul parafango. Questa era l’operazione questo facevo».[6] Alla descrizione accurata dell’azione si aggiunge un ordito narrativo interrotto da note, elenchi, riflessioni diaristiche, lettere, frammenti poetici e dialoghi serrati che saggiano, montando e smontando continuamente il circolo perfetto di un resoconto piano, le diverse possibilità del romanzo.
Risulta evidente quanto, a distanza di più di trent’anni, sia cambiata la misura della prosa di Doctorow che oggi, assumendo un andamento meno sussultorio, cerca (forse anche più strenuamente) il modo migliore (o, se si vuole, la migliore allegoria) per comprendere la nostra realtà. Nella forma che Doctorow accorda alla consapevolezza della funzione della letteratura in seno alla civiltà capitalistica occidentale si percepisce, in fin dei conti, lo stesso disagio vissuto, sempre negli Stati Uniti, da Philip Roth e Don DeLillo. Tale forma, certamente, è diversa; ma, come questi, anche Doctorow si prende alcune libertà con grandi questioni quali la morte, il disagio della civiltà, la riflessione sulla letteratura, il ruolo del caso e della scienza nella nostra esistenza, facendolo in maniera falsamente pensosa, – si è detto – ma senz’altro pienamente letteraria. Si può parlare di ‘letteratura piena’ in ragione della grande autocoscienza che questi autori hanno della propria arte e del ruolo che essa può svolgere in seno alla società contemporanea. È un ruolo limitato, periferico ma, proprio per questo, percepito come ancora sorprendentemente indispensabile.
In Homer & Langley il modello comunicativo resta il medesimo di Ragtime e del Lago delle strolaghe ma, conseguentemente alla sostituzione delle parole con le cose, l’avviluppata composizione dell’azione del personaggio si trasforma in riproduzione ossessiva della stessa azione che, di volta in volta – proprio perché non compresa o compresa male –, deve essere riavviata:
                 
Quando Langley porta a casa qualcosa che ha colpito la sua fantasia – un pianoforte, un tostapane, un cavallo di bronzo cinese, un’enciclopedia in più volumi – quello è solo l’inizio. L’oggetto, qualunque esso sia, verrà acquisito in parecchie versioni, perché, fino a quando non perderà interesse e passerà a qualcos’altro, Langley continuerà a cercarne la manifestazione definitiva. (HL, p. 44)

La nevrosi compulsiva di Langley trae origine dal trauma della guerra (o da quello scaturito da quello che Homer definisce il suo «Fronte domestico», HL, p. 103) che, insieme alle cartucciere, agli scarponi, ai fucili e agli elmetti, entra nella casa dei Collyer per rendere ancora una volta evidente la «fatale inadeguatezza» (HL, p. 94) dell’uomo. È, in fin dei conti, all’inconscia consapevolezza di ciò e alla disperazione che ne deriva che è ascrivibile la ripetizione del bisogno di Langley di ammucchiare tutto in casa, così come la significativa formulazione della Teoria dei Rimpiazzi, subito presentata nelle prime pagine del libro: «nella vita – sostiene Langley – tutto viene rimpiazzato. Noi siamo il rimpiazzo dei nostri genitori, così come loro erano il rimpiazzo della generazione precedente». «Allora – obietta Homer – stai dicendo che tutto rimane sempre uguale, come se il progresso non esistesse». «Non sto dicendo che il progresso non esiste – conclude Langley –. Il progresso esiste, ma allo stesso tempo non cambia mai niente» (HL, pp. 19 e 21). Tali assunti nichilistici, suffragati dalla convinzione che la terra sia finita, si sposano perfettamente con la vuota progettualità di Langley che trova un suo corrispettivo, soltanto apparentemente pratico, nel progetto del giornale eternamente attuale. Si tratta di un giornale senza data (cfr. HL, p. 57), di un’edizione definitiva e sempre aggiornata che sia in grado di fissare una volta per tutte le manifestazioni fondamentali (i loci communes?) e le tendenze abituali del comportamento umano; un modello fisso cui sarebbe pervenuto raccogliendo per anni e catalogando giorno per giorno le notizie (raccontate su tutti i giornali pubblicati e distribuiti negli Stati Uniti) relative agli avvenimenti più disparati:

Il progetto di Langley consisteva nel contare gli articoli di cronaca e archiviarli secondo la categoria: guerre, stragi, incidenti d’auto, disastri ferroviari e aerei, scandali rosa, scandali ecclesiastici, rapine, omicidi, linciaggi, stupri, malefatte politiche con una sottocategoria per i brogli elettorali, reati della polizia, crimini della malavita, truffe finanziarie, scioperi, roghi di casamenti popolari, processi civili, processi penali, e così via. (HL, p. 56)

Ma, è noto, le raccolte d’argomenti sono innumerevoli e ciò finisce col decretare l’impossibilità del progetto di Langley. Il percorso che, partendo dal fatto, passa attraverso la notizia e arriva fino alla definizione del mito fruisce pienamente di questo processo di condensazione del quale, essendo per sua stessa natura interminabile, non si può valutare il grado di approssimazione alla realizzazione (ma di ciò si parlerà in conclusione di questo scritto). Laddove il progetto fosse realizzabile e la gente, ormai sicura di dover abbandonare la terra e della nascente speranza di poterlo fare concretamente a bordo di un razzo, potesse leggere ogni pagina del giornale come se si trattasse di una profezia, «saprà che, essendo riuscita ad andarsene da un pianeta, potrà distruggerne un altro in tutta tranquillità» (HL, p. 144). Assunto che eleverebbe il pessimismo di Doctorow a un livello cosmico, se non fosse, come si vedrà nel prossimo paragrafo, per quella flebile possibilità di salvarsi insita nella pratica scrittoria.
                        
«Devo scrivere di ciò che non si vede» (HL, p. 192). La terra, così com’è, è una chiesa sconsacrata; allo stesso modo della magione dei Collyer, immane raccolta di merci e di antimerci, essa risulta spettacolare e scandalosa. Non è ancora possibile per l’uomo sfuggire dal disastro che egli stesso ha combinato e, allora, l’unico procedimento paventato da Doctorow che consenta all’individuo di recuperare l’essenza del mondo esterno senza compromettersi in un rapporto di possesso è una formazione di compromesso che resta di natura letteraria, ma che si sporca le mani con la realtà: all’interno di tale creazione, le manifestazioni di linguaggio si affiancano – come già anticipato – a una funzionalità di recupero secondaria. La costruzione dei Collyer fa crollare la distinzione ontologica tra fuori e dentro (cfr. HL, p. 88) e diventa un sistema, scomodo ma efficace, per riflettere sulla deriva tardo-capitalistica della società occidentale, proprio come sostiene lo stesso Langley a proposito dell’automobile-totem installata tra le mura domestiche: «qui, nella nostra elegante sala da pranzo, la sua mostruosità diventa evidente» (HL, p. 89).
Così come è facile notare la specularità del rapporto tra universale e particolare, tra interno ed esterno, allo stesso modo, risulta evidente la capacità dello scrittore americano di saldare i ricordi alla fantasia, le cose allo spazio immaginario: i ricordi sono le cose e, per non perderle del tutto, lascio che la vita, il solido mondo degli oggetti, scorra liberamente (cioè senza precisione) nelle mie stanze e, in secondo luogo, in ciò che scrivo. È servendosi di questo elemento di realtà che Langley tenta di scongiurare la paura di «rimanere solo dentro il vuoto infinito della mente» (HL, p. 215); horror vacui che è (abbastanza ovviamente) immagine speculare della condizione di cecità del fratello. Homer vive in una condizione di privazione e di isolamento che è, sì, quella di un cieco, ma che è anche quella di colui che desidera colmare la distanza con la realtà, attraverso lo sforzo memorialistico e la capacità critica; è la condizione dell’intellettuale che è consapevole dello stato in cui versa egli stesso e la realtà che vive e descrive e che, nonostante ciò (o proprio per questo), continua a scrivere perché vuole rimanere in vita.
Per superare il suo isolamento e poter sopravvivere, Homer prova a giocare la carta dell’innamoramento, anch’esso replicato ma altrettanto ripetutamente deluso, per Julia, per la signora Hoshiyama, per Mary Elizabeth Riordan, per Lissy, per Jacqueline Roux: ciascuna figura femminile è, di volta in volta, percepita come la condensazione fantasmatica di tutte quelle precedenti; con ciascuna di queste donne la delimitazione dell’Io di Homer nei confronti del mondo esterno diventa incerta. Anche questo fenomeno rientra nella sintomatologia della Sindrome di Collyer, syllogomania amorosa, in tal caso, che è l’ennesima dimostrazione pratica della Teoria dei Rimpiazzi di Langley: «l’oggetto d’amore era forse l’intera specie, se qualunque adorabile creatura poteva venire rimpiazzata da un’altra?» (HL, p. 160). D’altro canto, al processo di condensazione messo in atto da Doctorow non si sottraggono neanche i due protagonisti del romanzo: infatti, nonostante la definizione di «persone sui generis» (HL, p. 184) – coniata da Langley – sancisca la loro distanza dal consorzio umano, in realtà la storia ne decreterà l’inesorabile appartenenza.
L’instabilità dell’Io di Homer è l’occasione per riconoscere un ‘fuori’ e ammette la possibilità di distinguere (per un attimo) ciò che gli appartiene e ciò che scaturisce dall’esterno. Al puro Io-piacere si contrappone – direbbe Freud – un ‘fuori’, minaccioso ed estraneo[7] che però ben presto, per come lo raffigura Doctorow, finisce per sanzionare ogni elemento di distinzione tra i fenomeni. Così, la psicosi dei Collyer finisce per includere tutto: essa, come la loro abitazione o il giornale senza data ideato da Langley, cerca di conservare ogni cosa e diventa essa stessa la riproduzione impossibile di quella strutturazione finale cui mai si perverrà e, nello stesso tempo, di tutti i suoi stadi anteriori. Doctorow mostra come i programmi dei due fratelli si rivelino irrealizzabili, così come i loro tentativi di eludere l’infelicità; pur tuttavia, non è possibile rinunciare a questa disperata aspirazione, prescindendo dalle disordinate esperienze di vita, dalle frustrazioni, dalla riluttanza ad abbandonare le proprie posizioni e dall’inadeguatezza degli uffici che regolano le relazioni degli uomini. L’esistenza non sarebbe che l’esito di un costante contrasto tra libido oggettuale e libido narcisistica o, che poi è lo stesso, tra eros e pulsione di morte o, ancora, tra desiderio dell’Io ed esigenze del Super-io. L’idea dello scrittore americano consiste nel far cadere l’opposizione tra interno patologico ed esterno normale: nelle comunità civili odierne, l’individuo e la massa sarebbero affetti da una patologia comune che è frutto dello stesso sforzo di civiltà e che, proprio perché così estesa, allontanerebbe ogni possibilità di orientamento. Doctorow, insomma, fa cadere il principio di realtà vigente, propendendo per un anomalo universo di indistinzione che finisce per essere elemento peculiare dell’intero genere umano.
Secondo un procedimento simile, il ricordo e la fantasia trovano una forma di coesistenza nell’identificazione tra le parole e le cose, in una condizione che è sempre più deprivata ma che, allo stesso modo, continua a essere dinamica e si rivela, probabilmente, la sola possibilità di controbilanciare una deriva nichilistica inesorabile: «forse la mia mente si sta rinchiudendo in se stessa – ammette Homer – e i ricordi si stanno cancellando, oppure ho finalmente capito la profezia del giornale eterno di Langley» (HL, p. 177). I due momenti (ricordo e immaginazione, ma anche passato e futuro) sono legati in un processo indivisibile («non sono più sicuro di nulla – cos’è immaginazione, cos’è ricordo», HL, p. 209, ammette Homer nel finale del romanzo) che, trasponendo la natura delle cose e dei fatti nella ricostruzione fantasiosa di Doctorow, finisce con l’interpretare il mito: mira, cioè, a mettere in crisi il concetto di universale. Quella di Homer & Langley è una fantasia stanca, forse inerte, eppure sorprendentemente ancora viva: non c’è niente che valga la pena di fare, la situazione non può migliorare, la casa sembra una tomba e all’esterno le cose non vanno meglio, eppure scrivo, acquisisco consapevolezza e spirito battagliero e mi mantengo in vita. Sarà per questo che, per il finale del romanzo, Doctorow preferisce la folle disperazione della vita e dell’immaginazione («Jacqueline, da quanti giorni non mangio. C’è stato uno schianto, l’intera casa ha tremato. Dov’è Langley? Dov’è mio fratello?», HL, p. 215) alla franca rappresentazione di quella morte per inedia che, nella realtà dei fatti, colse i fratelli Collyer nel marzo del ’47.
Alla familiarità del pensiero Doctorow oppone l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo, impossibilità che – come si è visto – è legata alla vicinanza improvvisa e dunque alla prossimità, alla possibilità di una giustapposizione di oggetti così disparati. Questa opportunità è data dalla casa dei Collyer che, come la bocca d’Eustene di foucaultiana memoria,[8] diventa con Doctorow la regione dell’eterotopia. Come si è visto, ci si trova in uno spazio ben distante tanto dall’oggettività quanto dal luogo comune e da una consolante utopia. E l’eterotopia, si sa, inquieta;[9] quella allestita da Doctorow propone una modalità letteraria di ordine: ossimoro che, ribaltato, rivela il valore critico del disordine. È così che lo scrittore americano altera lo stato delle cose, il loro modo d’essere. La letteratura è l’unico sistema che consente di dare un senso al magazzino dei Collyer e la sola forma in grado di resistere alla disperazione del tempo. Lo fa mediante una prospettiva archeologica che risale oltre la classificazione originaria delle cose stesse, fino al loro senso storico profondo. Doctorow, con Homer & Langley, propone, più che una lacerazione dell’ordine delle cose, una loro disposizione alternativa che tanto più è chimerica (o utopistica, che dir si voglia) quanto più è umana. Allora devo rinunciare a pensare l’uomo?,[10] è ciò che si chiede Foucault nel capitolo conclusivo di Le parole e le cose. Tutte le cose indurrebbero a rispondere di sì – ammette Doctorow –, ma, se le comprendo, se le ‘prendo insieme’, se le racchiudo in un luogo eterotopico esemplare quale può essere lo specchio o la mia incredibile casa o la mia costruzione letteraria, in fin dei conti, ho un’altra possibilità.

«E io ho scelto di interpretare il mito».[11] Una riflessione supplementare merita il rapporto tra letteratura e mito, fondamentale per la piena comprensione di Homer & Langley. Il mito – sostiene Roland Barthes – non può sorgere direttamente dalla natura delle cose ed è per questo che non può che porsi come sistema semiologico secondo.[12] Si intuisce, dunque, che esso entri in relazione con quella funzionalità di recupero che Doctorow attribuisce alla letteratura. Ma di che natura è tale relazione? La letteratura, per lo scrittore americano, non ha il compito di esprimere l’indicibile o l’indescrivibile ma, specialmente quando essa insiste sul mito, trova una misura che è, inaspettatamente, essenziale e fattuale allo stesso tempo. La letteratura, dunque, parla la cosa, agisce sulla forma del mito. Tale forma, nelle vicende che vedono protagonisti i fratelli Collyer, è fatta di oggetti linguistici e, in concomitanza, reali, cioè, nella funzione che Doctorow accorda loro, metalinguistici. Tali oggetti, seppur non disposti ordinatamente, detengono un senso supplementare che riguarda la conoscenza del reale più che il reale stesso. Sovrapponendo la forma al senso (come già aveva fatto con interno ed esterno, particolare e universale, ricordo e immaginazione), Doctorow arriva alla definizione di un mito che, fondandosi sull’importante recupero memorialistico di un cieco, non è mai completamente arbitrario, ma neanche del tutto naturale. Il mito dei Collyer risiede interamente in quegli interminabili elenchi che continuano a non nascondere nulla pur non essendo necessariamente una rappresentazione veritiera della realtà. Così, Homer e Langley, ricorrendo espressamente a una falsa natura, fanno del disordine stesso un mito e finiscono per considerarlo – nel modo esplicitato da Doctorow – come una condizione strutturale al sistema tardo-capitalistico. Ciò è chiaramente frutto di una posizione pessimistica: non ci sarebbe alcuna via di scampo al dramma della vita. Ma a salvarci c’è la letteratura (sistema semiologico terzo) che si innesta sul mito senza però snaturarlo. Doctorow crea, cioè, un mito artificiale, desumendolo (sembrerebbe spontaneamente) da quello pienamente naturale che immobilizza il mondo in immagini che si ripetono all’infinito. In realtà, tra mito e letteratura si instaura un rapporto di coordinazione dialettica, la stessa che è normalmente coinvolta nei nostri processi interpretativi: ciò significa che la letteratura interpreta il mito, ma non per trarne una regola contratta e ideologica o valida una volta per tutte; bensì, per accordargli una significanza umana. Questa è povera, ripetitiva e discontinua e, tuttavia, ha il potere unico di consentire alla letteratura di superare, da una parte, la lettera, e dall’altra, il luogo comune e di riaffermare così l’esigenza (e la possibilità) di recuperare (e forse di salvare) l’umanità dirigendosi sul versante opposto, quello colpevole e disordinato della parola.



[1] E.L. Doctorow, Homer & Langley [2009], trad. di S. Pareschi, Mondadori, Milano 2010. Nel citare da questa edizione del romanzo, riporterò la semplice indicazione del numero di pagina, preceduto dalla sigla HL.
[2] Cfr. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 1993, p. 8.
[3] Cfr. ivi, p. 19.
[4] Cfr. T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa [1951], trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2006, pp. 74-76.
[5] E.L. Doctorow, Ragtime [1975], trad. di B. Fonzi, Mondadori, Milano 1996, p. 31.
[6] Id., Il lago delle strolaghe [1979], trad. di F. Franconeri, Mondadori, Milano 1982, p. 182.
[7] Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà [1929], trad. di E. Sagittario, in Id., Opere X (1924-1929; Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti), Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 560.
[8] Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [1966], trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1980, p. 6.
[9] Cfr. ivi, pp. 7-8.
[10] Cfr. ivi, p. 413.
[11] Dichiarazione di Doctorow riportata in L. Manera, Doctorow: la follia abita qui, in «Corriere della Sera», 8 gennaio 2010, p. 36.
[12] Cfr. R. Barthes, Il mito, oggi, in Id., Miti d’oggi [1957], trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1994, pp. 191-238; in particolare, p. 192.

da: Alessandro Gaudio □ Il limite di Schönberg.Il principio ibrido, il disagio e la mancata fine del romanzo, edizioni Prova d’Autore di Nives Levan, Catania 2013