Chi perviene in questa sala ampia dell’Adriatik
all’incanto della macchina,
chi attraversa la banale esattezza del
mondo:
lei, la violoncellista dell’artificio,
o lui, il poeta che è sempre meno soggetto
di
desiderio e perciò più prossimo al niente
dell’oggetto?
C’è questa sera con questi colpi di luce
all’orizzonte
dal mare e non ci sono i venti del nord
in questo seno teso come se al Meridiano
passasse la forma segreta dell’Altro,
come se si stesse ricostituendo, a partire
da alcuni
frammenti dell’anamorfosi dell’oggetto
d’amore,
di quello che è il suo fantasma-archetipo,
seguendo questa linea spezzata,
l’evidenza perfetta e segreta dell’Altro.
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Il poeta legge l’inesorabilità
dell’oggetto,
questo volto, questo segno fisiognomico,
questo naso
che fa irruzione nella sua vita, e in un
solo istante
è tutto ciò che non gli sarà mai dato di
sapere,
può essere questo naso alla Mullova il
luogo del
suo segreto?
E’ questo il luogo di chi gli sfugge, e
attraverso
cui lui sfugge a se stesso?
Il naso della violinista che è come
l’andatura
di quella che ha incontrato in città
stamattina,
e che il marinaio pensa che lui abbia
incontrato
un’altra persona, tanto che gli chiede di
chi ha
il desiderio e così che lui gli risponda di
quella
del mattino.
Lui dice: Dua asaj jap të emër[1].
Lei lo pronuncerà, non capirà perché,
eppure le chiede di farlo, di ripetere senza comprendere perché,
ammesso che ci sia qualcosa da capire.
E’ questo che doppia la vita dell’altro,
questo dargli un nome, in cui è exinscritto
nella
figura dell’Altro, nella forma venuta da un
altro luogo.
Gli dice il nome:Aurélia Gurmadhi[2].
[1]
“Voglio darle il nome”.
[2] Dopo
aver intravisto, nella sala dell’Hôtel Adriatik, la violinista Mullova, ci si
aspetta che il nome dato sia il suo. Che, poi, il “voglio darle il nome” faccia
assonanza con “voglio darle il nove”, che, gergalmente, annette la “furia
gentile” dell’enneasillabo con cui Gabriele d’Annunzio vorrebbe gratificare
il “solco niveo de le reni” della splendida Cellere,
la bionda Diana che è la marchesa Lavaggi, e da cui traspare il segreto
insostenibile di Aineias, che contiene la potenza terribile del verso di
9 sillabe (ovvero:9 pollici?) di ainos, fa sì che la furia gentile della libido
continui a esclamare dentro, o sotto. Anche perché, essendo così apparsa sulla
scena dell’inconscio del poeta, vedete come la “pietra” di Aurélia Steiner e di
Aurélia Gurmadhi sia stata lo specchio o, forse, l’ombra da cui il fantasma fa
oscillare lo gnomone del désir: c’è
difatti il “mullar” albanese, che è
la “pietra da mulino”, o “mulli”, che è il molino; o il “mol” dell’antico
bulgaro “moleti”, che è lo “sporgere fuori” e quindi la “riva”, la “sponda” del
romeno “mal”; insomma, tutto un aggregato fonematico dell’acqua e della pietra:
la sponda, la riva, il molino, la pietra da molino; ma c’è anche, per il
“mulus” latino, il “myll”(pron.:”müll”)
albanese e quel che più conta, il russo МУл trasl.”Mul”, che è il “mulo”, che è, sì,
questa bestia da soma(così presente nel paese di Aurélia Gurmadhi: 23000
esemplari in media a fronte dei 19000
capi, tra muli e bardotti, presenti in Italia o dei 12000 allevati nel paese di
Aurélia Steiner de Paris), ma è anche questo sostantivo così morbido, tenero,
così melodico e bagnato che fa da sponda, ne converrete, allo “Shumë-Shalë”, la Sella indicibilmente ainos, terribilmente, molto, assai,
superbamente indescrivibile di Aurélia Gurmadhi, che, appunto, ha lo “Shumë-Shalë” da Mullova? O,
semplicemente, da mula ?
“A dorso di mula”, questo è
inconfutabile, non ha niente a che fare con la locuzione “a dorso di mulo”: è
tutta un’altra musica!
V.S.GAUDIO
from:
AURELIA MYSLIMANE GURGUR