C’è questa lunga sera sabbiosa, e non ci
sono i venti del nord in questa insenatura nell’ampia sala da pranzo
dell’albergo Adriatik una giovane
seduta a gambe divaricate con la sinistra tiene aperte le labbra della vulva,
mentre con la destra si passa la punta dell’archetto sul clitoride in un lieve
tremolo.
Non è su uno sgabello nella sua camera da
letto, non è a Manila.
Non è una violoncellista ventiquattrenne.
Non è S. che, ne La suite
vénitienne, si traveste e si fa
bionda per seguire l’altro, per farsene
specchio senza che lui lo sappia[1].
Nulla sta succedendo per far sì che si crei
un contatto tra la violoncellista e il poeta; qui, a tale ora, nell’ampia sala
dell’albergo Adriatik, sotto questa
determinata luce, c’è qualcuno.
E contemporaneamente capire che non c’è
alcun senso a essere qui, in questo posto, in questo momento.
Di fatto, non c’è nessuno, io che ho
seguito questa donna vi posso garantire che non c’era nessuno.
Questo diritto fatale di inseguimento
in questa estraneità così indicibile
è la regola, o la trappola, che fa
funzionare tutto perfettamente.
In questa curva del tempo, cos'è che lascia
credere
che il marinaio dai lunghi capelli sia colui che crede
o lei sia quella che fa credere;
l’artificio della
grazia è questo doppio artificiale
o è questo crepuscolo che ti fa entrare
nell’ombra artificiale del proprio doppio?