Tatarânnë zŭmmë zŭmmë ⁞ La conclusione della spedizione degli Scalzacani per il passaggio a nordovest del Delta del Saraceno
(…)
Ebbi l’eccellente idea di inviare
Antonio Mundo con Faluccio de Gaudio, o Gaudio, a Forte Pozzofetente, per occuparsi della
fornitura di provviste promessa. I due partirono di malumore, e d’un tratto la
pace regnò a Fortë e Shalë i mashtrimi.
Gli indiani cacciavano. Le donne badavano a cucire i vestiti
invernali. Gaudio, compatibilmente con il tempo che gli lasciava Calza Rossa,
costruì un forno che con la legna funzionava in modo più economico di un camino
aperto.
Saverio era sempre più innamorato della bonazza indiana:” E mirë - mirë”[i],
dicevano gli arbëresh menandoselo tra gli alberi. C’erano lacrime di gioia
nei suoi occhi quando la rivedeva dopo poche ore di separazione.
I-Kallam e io non dicevamo niente in proposito. Pensavamo
che il fatto fosse troppo fuori dal comune per poterlo liquidare con ovvie
obiezioni. Calza Rossa era una stella di terza grandezza, noi parlavamo di
altre cose: la bussola, le stelle, il sestante, i segnali con cui noi
scalzacani ci intendevamo da una grande canoa all’altra, le feste, il Palo di
Maggio e le leggende indiane di Alessandria del Carretto.
Presto fece terribilmente freddo. I-Kallam aveva avuto
ragione.
Tranne Saverio, tutti di tanto in tanto soffrivano molto.
Non restava che scivolare di soppiatto tra gli alberi più su al Piano
dell’Alpe, anche se Dio e gli indiani vedevano tutto. Un giorno, quando Aïno tornò
dalla caccia senza preda e diede a intendere di non aver visto niente,
Qesharak, con il suo naso a patata, disse imperturbabile a Cristofaro Gaudio:
“La selvaggina c’era, ma quello che aveva in mano l’uomo delle Tre Bisacce
probabilmente non era un fucile.” Cristofaro lo riferì ben presto ad Aïno, che
dapprima si arrabbiò, ma poi dovette ridere anche lui.
La sera parlavo sempre più spesso
con Vicinz Gaz. Il dottore era devoto, ma non era cattivo. Voleva sapere la
verità. Quando gliela dicevano, poteva essere tollerante. In realtà era
fermamente convinto che un giorno lo scettico Gaudio si potesse convertire.
Un lunedì sera Gaz mi chiese: “Se esiste l’amore, non
dovrebbe esistere un vertice, una summa d’amore?”
Allora io risposi alla domanda del giorno precedente:”Non
ho paura di questo, perché posso immaginare il nulla come qualcosa di
abbastanza tranquillo.”
Sull’amore al momento continuai a tacere, anche se nei passaggi al meridiano del mio oggetto a Çorap e kuqe-Calza Rossa vi era transitata insieme come
vertice, più che una summa d’amore, una verticalizzazione imponente e assoluta.
Il mercoledì sera parlammo a lungo, perché era la volta
della vita eterna.
Comunque, quando osservavo Saverio, mi sembrava che l’amore
fosse più una malattia che qualcosa di divino. Per questo dimenticai di
rispondere a proposito dell’amore.
Vicinz Gaz ebbe a riferirmi che la
figlia giovane di Aïno, che gli arberësh dell’ovest chiamavano, dopo la
spedizione di Bragalla, “Tere ky ketù”[ii] e
gli arberësh dell’est “ane-te-aìne”[iii],
era un autentico shume-i-peshk, così
ebbe a dire, e aggiunse: un pescione, e
peshk-peshk e tri bisthes, la
pisciona delle tre bisacce, che a Bragalla, tutta tenuta nel subligacŭlum, magnifica adlectatio nelle
calzebraghe nere, fu maestra nel tendere il dispositivo di alleanza dando il dogu-togu[iv] a
994 o 942 bragallesi, a seconda che si fissi il suo I.P. a 18 o a 19 e l’I.C. sia
pari a 52.35. Ci fosse stata lei a
fare il mushqepeshk[v],
l’inverno, mi assicurò il dottore, sarebbe stato didonico se non addirittura
terribilmente aïnico. La figlia paralongilinea-paramesomorfa di Aïno degli
Scalzacani dagli ammašcanti era soprannominata “Marsïana”, in omaggio al termine “marsianu”, che è il buco, il fanale, la
luce azzurra, il bagliore aïnico. U pisciunazzu , per quanto aveva fatto a Bragalla, aveva avuto dai
palisti d’Alisandra l’appellativo Peshkuaka[vi],
ricavandolo dalla terza persona singolare del presente ammirativo del virtuale
verbo generato dal sostantivo Peshk.
Quattro mesi dopo ritornarono Mundo
e Faluccio de Gaudio. Non avevano ottenuto niente e si addossavano
reciprocamente la colpa.
Del cibo promesso a Forte Pozzofetente non era arrivato
nulla,anche se avevano trovato gli interpreti gliaroni .
A Forte
Pozzofetente Mundo aveva cercato di
ottenere le provviste a suo modo. Faluccio, disse, l’aveva piantato in asso:
“Ha dimostrato più comprensione per le presunte necessità degli indiani della
Timpa e di Francavilla che non per le nostre. Non ha lottato per noi!”
Faluccio controbatté:”Il signor Mundo non ha fatto che
strillare, da gliarone qual è, con le autorità competenti. Così non si ottiene
un cazzo!”
Saverio continuava ad amare Calza Rossa. Calza Rossa era
stata impregnata. Di chi, c’erano pareri diversi da quello di Saverio, che, era
evidente, aveva riempito di schizzi solo l’album.
Gli interpreti gliaroni erano tipi
dal naso piatto, dai capelli crespi e dai corpi muscolosi, e si chiamavano Bark
e Vesh, che significavano ventre e orecchio.
Il 14 giugno i fiumi furono di nuovo
percorribili per tratti così lunghi che decisi di partire. Tutte le carte e le
annotazioni furono chiuse in un ripostiglio della baracca “Fortë e Shalë i
mashtrimi”.
Sulla porta Aïno inchiodò un disegno che
raffigurava un pugno alzato con un coltello lievemente azzurrino. Dal momento
che sotto il Piano dell’Alpe ognuno, indiano o gliarone che fosse, poteva usare
qualsiasi capanna, bisognava in qualche modo proteggere le carte. Anche
I-Kallam riteneva che il disegno poteva essere più efficace della serratura.
Comunque, qualora non fosse bastato l’avviso esterno, una volta dentro il
viaggiatore intruso avrebbe trovato affissi alle pareti altri disegni che
raffiguravano una ragazza indiana di straordinaria bellezza che usava il fallo
dei viandanti alla maniera dell’eros dei castracani: anche I-Kallam riteneva
che i disegni potevano essere un ottimo diversivo pure per gli intrusi ammašcânti e gli arbëresh
d’Alisandra, che, notoriamente, erano poco propensi alle sollecitazioni della
bellezza indiana[vii].
Calza Rossa non era venuta con noi,
era rimasta presso la tribù. Anche uno dei guerrieri di E-Kallam era rimasto
là, per amor suo. Lo sapevano tutti tranne Saverio Gaudio. Persino io lo
sapevo. Saverio raccontava che alla fine del viaggio sarebbe tornato là a “Fortë e Shalë i mashtrimi”
e avrebbe vissuto con Calza Rossa, a Pozzofetente o da qualche altra parte
financo nella zona costiera delle Tre Bisacce. Tutti annuivano e tacevano.
Persino Mundo tenne a freno la lingua.
Sulla riva o, meglio, sul pendio,
che si inerpica dalla Sella, che passa da 471 metri, più ad est verso
Spartivento è 490 l’altezza, a 375, a 340, giù a 116 nel fiume e, dall’altra
riva, c’è, tra 363 e 405 metri, Armi Rossi, che si inerpica nell’agro di
Villapiana dalla Punta del Saraceno, laddove, nell’agro delle Tre Bisacce, si
inerpica la Sellata dell’imbroglio [ e che fa parte della Commenda
Gerosolimitana dell’Ordine dei Cavalieri di Malta o di San Giovanni di
Gerusalemme o forse di Aïno, da cui discende il marinaio della nostra spedizione,
tanto che la Shummulõna c’è chi
dice che fosse una zoccola maltese e alcuni una troia aïnica, ma
giacché la commenda finisce e si dirama da Gozo, o Gawdesh, si pensò, quando ci fu il rapimento di una magnifica
preda, prima a Calza Rossa, poi alla Shummulõna dei Pa-Rrotë, per
toglierne l’uso al gran capo di quegli Scalzacani, infine si disse che la
rapita era addirittura Aquila Gaudio], il punto designato è il toponimo
ritornello dedicato al gran capo degli Scalzacani(“e Zbathurqenët”):
Ta-ta-rânnë-zŭmmë-zŭmmë
che è diventato il ritornello, canzonatorio in apparenza,
rivolto a chi adesso è prostrato o caduto ma ha goduto del piacere, del gaudio,
assoluto.
La prima traduzione sarebbe: “il padre grande ha goduto lo
Shummë e l’Enzumme”: nello zŭmmë si fa
entrare sia lo Shûmmulo che
l’Enzuvë; anche
se c’è un’altra versione un po’ sanscrita: “tata”
, che è, in sanscrito, sia “padre” che “riva”, “ran”, “godere”, ma anche “risuonare”, “tintinnare”, lo zŭmmë, che è il
patagonico suono del fantasma quando passa al meridiano come analemma
dell’oggetto a, che rinvia al “suma” sanscrito, che è “luna”,”cielo”,
“atmosfera”.
C’è una ulteriore variante del “ta”, che è “questo”, che, ripetuto diventa superlativo, cioè: “il
grande questo sulla riva o sul pendio godette, suonò la luna (o il cielo)”.
La strofa completa è così cantata nel dialetto del Delta
dagli Scalzacani stessi:
Tatarânnë jivë girănnë
Parròtt jivë nzìvânnë
Girë e ‘nzïvë, zŭmmë e shŭmmë
Tatarânnë zŭmmë zŭmmë
La traduzione deve essere sempre a doppio senso:
“Tatarânnë(= il
Grande Padre) andava girando
Il cannone(il “top” chiamato “Parrott” dal nome del
brevettatore) andava enzuvando
Gira e enzuva, fa lo zŭmmë e shŭmmë
Questo-questo godette il cielo(o la luna) lo zŭmmë-zŭmmë!”
Photostimmung basata sul cannone
Parrott
by Blue Amorosi
Quattro settimane dopo avevamo quasi
raggiunto lo sbocco del fiume. Da allora potevamo incontrare in qualsiasi
momento gli arbëresh d’Alisandra, che andavano a guardare le donne che
lavavano i panni sulla riva del fiume. I-Kallam non se ne tornò a Castroregio
con la sua tribù, puntò a est verso la costa degli scalzacani, anche se non
sapeva come si sarebbero comportati i suoi guerrieri con quegli indiani, ma
avevano le donne e con la maestria rïulesa e castracane avrebbero
ottenuto sportule e commende per loro e le future generazioni: “Dicono di noi
che siamo metà uomini e metà cani. Quanto agli scalzacani, bevono sangue crudo
e mangiano pesci crudi, ma amano ngul[viii].”
Si accordarono con Faluccio de Gaudio, che andasse con
loro; se la spedizione fosse fallita e non fosse riuscita a raggiungere le
terre dei Pa-Rrotë, avrebbe rifornito il forte della Sella dell’imbroglio di
provviste e munizioni.
Saverio volle sapere dove avrebbe soggiornato la tribù
nella primavera seguente. Con espressione imperturbabile, E-Kallam gli comunicò
che sarebbero stati nel territorio a
sud. Il padre di Calza Rossa gli porse la mano e disse: “Save’, quando avrete
fame dovete bere molto, e fate meno schizzi, altrimenti morirete!”
Eccolo di nuovo, il mare, con la sua
cara pelle rugosa da elefante: il mare degli scalzacani delle Tre Bisacce!
Presto avrebbero sfilato davanti a noi flotte di mercantili diretti a Taranto e
le navi per Crotone. Ma in fondo, che cosa mi importava delle imbarcazioni! Mi
misi a ridere. Ero di buon umore. C’era quiete sulla collina. Dall’altura
ricoperta di erba gli uomini guardavano il mare oltre lo sbocco del Saraceno,
il fiume degli arbëresh d’Alisandra.
Davanti ai miei occhi si stendeva una terra ignota,
silenziosa e non tanto immensa, solo il doppio di tre bisacce, l’antica misura
agraria della terra di Faluccio de Gaudio, ma immensa quanto il giardino dei
miei avi, gli scalzacani della famiglia Pa-Rrotë.
E il mare era indistruttibile: mutava aspetto ogni giorno e
restava uguale a se stesso in eterno. Finché esisteva il mare, il mondo, pur
pieno di gliaroni, non era misero.
[i] “Buona-buona”, ovvero:”Bona-bona”,
“Bonazza”.
[ii] Da leggere così: “Tr-kiu-chtù”, significa:”Tutto questo qui”!
[iii] “Fianco(lato, margine) d’Aino”.
[iv] E’ termine dei
quadarari ammašcanti, significa:”Pesce
buono”, “’u-piscbbùne”.
[v] “Mulapesce”.
[vi] Letterale: ”Cristo, che cazz’i pisci!”. Per altri,
era “i qime shume”, “il pelo assoluto”, oppure “i qime i Aine”, “il pelo d’Ainea, Enea”.
[vii] E gli intrusi, si
narra, furono tanti nel corso degli anni che la baracca fu chiamata “la baracca
degli schizzi del Gaudio”, nella lingua degli Scalzacani: “abbaràkk diskîzz’i Gavidĵ”, nella lingua dei Castracani: “e barakë i skicave[la “c” si legge “z”] i Gazi”. Altra denominazione del luogo tipico: “e barakë e kuqe” che gli indiani delle
Tre Bisacce commutano in: “abbaràkkä da
Cucckä”, ma il nome più ineffabile di quel punto designato 33SXE271146(cfr.
nota 17) è forse quello coniato dai quadarari meticci: “e shalë e mashtre”, che è sì, in parte, “la sella dell’imbroglio”, ma è anche un po’ “la sella della maestra”, cioè della Cucckä dei Castracani,
l’indiana che ha somatizzato l’oggetto a del capo spedizione con l’indice del pondus 8 e l’indice costituzionale 59. Per i quadarari indigeni e geneticamente puri, “la sella
dell’imbroglio” si è sempre specchiata nella loro sella dell’ ‘mbrógliu, che, essendo un “rotolo di
rame”, aveva il “peso di 1 Kg ”,
difatti il toponimo quadararo è: “shalë i
‘mbrógliu”(cioè la sella che richiede l’arnese di 1 Kg ) con la variante precisa
“u trunânte p’u ‘mbrógliu”(la “sella”
per 1 Kg
di rotolo di rame). La somma cabalistica del punto designato nel Foglio n.222
della Carta d’Italia, IV S.O. Trebisacce fissa invece come numero il 21,
che, nel “Foutre du Clergé de France”(1790),
è la posizione dell’Imbronciato, che
illustra lo stato amoroso di Saverio Gaudio: l’uomo volta la schiena
all’indiana e lei dovrebbe infilarsi l’‘mbrógliu.
Solo che così, giacché lei ci rimette almeno un pollice, il rotolo non è più da
1 Kg e
nemmeno è ménzu ‘mbrógliu. Anche se, come sostengono i chierici francesi e gli
indiani franco canadesi, l’indiana non s’addormenta mai quanto albeggia, nemmeno
con i quadarari di Albidona che manco un quartu
‘mbrógliu tengono. Comunque, la
posizione 21 dell’Imbronciato è quella della persistenza
e, difatti, per gli schizzi che ci sono nella baracca da Cucckä come può la ‘ndrappuna dormire?
Oltre ai residui umani e animali rinvenuti
nella Baracca della Sella, e parecchi
referti di natura genetica e culturale destinati a Calza Rossa, fu rinvenuto, in tempi recenti, un foglio manoscritto
con evidenti incrostazioni di natura sessuale con questa poesia lasciata in
omaggio ad Arshalëzet(cfr.
annotazione in merito in “Strutturalismo
della Sella”, a seguire nel testo integrale della Lebenswelt):
il legno è come la pelle e un po’ come il melone
e mani e
dita vanno nel senso del sole
e
risalgono a posarsi dove la carne con lo gnomone
fa
verticale e profondo il meridiano
di largo
in lungo si viene si va
cielo e
vento liquido e macchia anche stesa
in linea
tra i bordi dov’è il campo
e questa
tela che aderisce fino al ventre carico
e
inclinato tra la giuntura dell’inguine e l’anello
solare
così marcato e pieno, il Jésuve che tira
acqua
muscoli dita glande non bastano
ancora
per bucare tra carne e tuono
remando
con tutta la mano
fino al
punto d’entrare nell’arco
della
durata che ha lo spessore della controra
La qualità letteraria del testo fa pensare che
il lascito sia opera di un poeta colto. Il riferimento al Jésuve non potrebbe che farlo un profondo conoscitore dell’opera di
Georges Bataille.
In calce al foglio è vergato: Enzuvë a Pascipecora .
[viii] “Ngul” significa “infilare” ,”ficcare”, “introdurre”, “fissare”.
da: La Lebenswelt con Sten
Nadolny
sulla spedizione
degli Scalzacani per il passaggio
a nordovest del Delta
del Saraceno © 2011